Ieri re Carlo III ha rivolto un discorso al parlamento italiano. La sua visita riempie i palinsesti. In un momento di instabilità, offre certezze

Se mio padre, monarchico convinto, fosse ancora vivo oggi, sarebbe stato contento.

La visita dei reali di Gran Bretagna è un segno tangibile di come le teste coronate riescano a prendersi comunque spazio nei media e nella pubblica opinione come esempio di stabilità ed identità rispetto al caos mondiale che a livello politico trionfa ovunque, soprattutto in questi giorni.



Pensiamoci: alla fine, dare spazio nei Tg come sui tabloid a re, regine e principesse non è solo questione da cronaca rosa, ma anche un tentativo più o meno evidente di tranquillizzare la pubblica opinione che non sa più a chi e a che cosa credere, preoccupata e anche sconcertata per l’atteggiamento di persone che pur sono al vertice del mondo ma che – come Trump – sembrano dei veri buzzurri, indipendentemente dall’importanza della loro carica.



Se Re Carlo III parla (in italiano) alle Camere riunite, difficile non ricordare che prima di lui a farlo sono stati soltanto degli altri sovrani (come Juan Carlos e Felipe di Spagna), oltre a Giovanni Paolo II che –  in fondo – era però anche lui un “regnante” sia pur di ben diverso significato.

Perché allora correre dietro alla monarchia, anche in Paesi come il nostro dove non c’è più da quasi ottant’anni?

Perché, anche se un sovrano “regna ma non governa”, forse identifica in sé la nazione, il popolo, lo Stato, trasmettendo un messaggio in fondo rassicurante di continuità e dell’essere “super partes”, ben attento (di solito) a non affondare nella palude politica interna ed internazionale.



Questo aspetto è diventato forse il più importante “valore aggiunto” dell’istituzione monarchica, che per altri versi appare invece fuori dal tempo, ma che torna prepotente a proporsi in parallelo allo sfascio di troppe nazioni dove – a parte quelle in cui i “presidenti” sono di fatto dittatori – i vertici dello Stato non sembrano in grado di raccogliere grandi simpatie nonostante siano spinti da media amici.

Nelle repubbliche presidenziali si può almeno parlare di un iniziale appoggio popolare, in quelle parlamenti troppo volte i presidenti sono eletti da maggioranze risicate e partigiane, quando non addirittura il cambiare dei governi pone in scontro diretto governo e presidenze aprendo crisi istituzionali profonde e conseguenti spaccature nell’opinione pubblica.

Non è stato facile per Carlo III superare le diffidenze e le accuse, sia per il suo passato personale legato alla principessa Diana e all’attuale regina Camilla, sia per la pesante eredità lasciata da sua madre Elisabetta, che aveva trasformato la monarchia inglese in un mito di trascendenza e di stile difficilmente eguagliabile.

Eppure questo re, che sembrava rimanesse per sempre senza corona, ha riguadagnato spazio dimostrando di avere imparato bene “il mestiere di re” superando scandali, divisioni e situazioni ben difficili da gestire. Forse perché i re moderni “studiano da re” fin dall’infanzia e non vengono eletti all’ultimo momento da maggioranze parlamentari variabili e ondeggianti o dopo campagne elettorali divisive.

Insomma, serve “qualcosa d’altro” a cui pensare rispetto alle divisioni, le polemiche che dividono i Paesi, le Unioni e le opinioni pubbliche. E ora anche e soprattutto rispetto ai dazi: l’ultima guerra in odine di tempo, non meno reale delle altre, spiazzante perché sembra sfuggire a tutti i nostri schemi.

Ecco dunque un po’ di monarchia, a surrogare le certezze già terremotate dalla guerra in Ucraina e ora dalla guerra commerciale. Ci serve una realtà meno amara.

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