Ecco spiegata la sentenza del Tribunale di Parigi che ha tolto l’Eliseo a Le Pen. "È una falsa applicazione del codice penale"

Questa domenica il Rassemblement National sarà in piazza a Les Invalides per protestare contro l’ineleggibilità di Marine Le Pen. Una sentenza che calpesta lo stato di diritto, hanno dichiarato dal partito. Non è dato sapere se prevalga la rabbia o la rassegnazione, dopo il “terremoto democratico” (Le Figaro) del 31 marzo. Gli osservatori hanno subito fatto notare che l’elettorato di Marine Le Pen non coincide con quello del RN, è molto più ampio e di conseguenza anche un elettorato di centrodestra più tradizionale potrebbe sentirsi defraudato, con esiti imprevedibili sul piano elettorale.



Ma cosa è c’è davvero in quelle 154 pagine che lunedì scorso la leader del RN non è rimasta ad ascoltare, abbandonando l’aula? Con Mario Esposito, ordinario di diritto costituzionale nell’Università del Salento e docente alla Luiss di Roma, ci siamo avventurati nel dispositivo del Tribunale di Parigi.

Gli effetti della sentenza sono sicuramente politici, perché ad essere giudicato colpevole è un candidato presidente. Ma è o non è una sentenza politica e perché?



Sì, è una sentenza politica e non solo per gli effetti, ma anche, dal punto di vista strettamente giuridico, per il modo in cui vi si è arrivati. Giova ricordare i fatti per i quali la Le Pen è stata condannata, con sentenza ancora non definitiva. La deputata del Rassemblement National è stata europarlamentare dal 2004 al 2017. Tra il 2009 e il 2016 avrebbe – condizionale d’obbligo, perché allo stato deve ancora presumersi innocente – utilizzato i fondi pubblici ricevuti dal parlamento europeo per remunerare quattro suoi assistenti parlamentari, i quali, in realtà, avrebbero lavorato per l’allora Front National (poi divenuto RN, nda) e non per il gruppo in Europa. È incontestato invece che non ne abbia fatto alcun uso personale.



Come si giustifica l’accusa di appropriazione indebita?

È molto dubbio che tali fatti ricadano nella fattispecie applicata, ossia l’art. 432-15 del codice penale francese, che punisce la malversazione di fondi pubblici. Per almeno due ragioni. La prima: la norma, diversamente da altre contenute nello stesso capo, non menziona gli eletti tra i soggetti destinatari, definiti invece come “depositari dell’autorità pubblica o incaricati di una missione di servizio pubblico”.

Perché non si applica ai parlamentari? 

Perché le funzioni dei parlamentari non hanno il carattere che, nell’ordinamento francese, individuano le prerogative di pubblico potere. L’attività dei rappresentanti consiste nel dibattere, votare, controllare, ispezionare e valutare.

E la seconda ragione?

La seconda pare ancor più rilevante e il caso della Le Pen lo dimostra efficacemente. La malversazione di fondi pubblici, usualmente intesa nell’accezione di indebito arricchimento personale, non ricorre nella vicenda di cui parliamo: le somme ricevute sono state utilizzate per retribuire prestazioni lavorative di collaborazione politica e, dunque, di vera e propria assistenza ad un parlamentare.

Quindi?

Per un verso, non è possibile – e non sarebbe neppure auspicabile – individuare quale e quanta parte dell’attività politica svolta da un parlamentare nel proprio Paese e nell’ambito del proprio partito sia funzionale al mandato europeo. Senza dimenticare che i deputati del Parlamento europeo sono eletti nei singoli Stati membri e ne rappresentano quindi le relative collettività nazionali; non diversamente vale quindi per i partiti politici. Non solo. Ancor più improbabile, e più pericoloso sul piano dei princìpi, sarebbe la pretesa di selezionare natura, qualità e adeguatezza dei compiti affidati dall’eletto ai suoi assistenti.

Pericoloso sul piano dei princìpi, ha detto. Andiamo fino in fondo. Se una simile indagine venisse affidata al potere giudiziario?

Si rimetterebbe ad esso la definizione del contenuto del mandato parlamentare, in palese violazione del principio di separazione dei poteri.

In sintesi, professore?

In altri termini, parrebbe che la sentenza del tribunale francese sia una sorta di falsa applicazione del codice penale.

Cosa può dirci di quella formula non così familiare, la “esecuzione provvisoria della pena”? 

L’immediata esecuzione provvisoria della pena accessoria irrogata a Le Pen comporta la privazione dell’elettorato passivo per cinque anni, dunque sino a ben oltre lo svolgimento delle prossime elezioni presidenziali (2027), alla quale, com’è ben noto, Le Pen avrebbe voluto candidarsi e la cui campagna elettorale inizia con ampio anticipo. Anche in proposito può essere utile una precisazione: si è trattato di una scelta dei giudici integralmente discrezionale.

Perché?

I fatti per i quali è stata pronunciata la condanna sono stati tutti commessi quando ancora l’esecuzione provvisoria non era misura quasi automatica, bensì applicabile, anche in ipotesi di malversazione di fondi pubblici, solo in caso di rischio di recidiva e di pericolo per l’ordine pubblico: presupposti indispensabili, secondo la Corte di Cassazione, per una lettura conforme a Costituzione dell’art. 471 del codice di procedura penale francese, che ne detta la disciplina. Oggi, viceversa il Tribunale, con riferimento a casi del genere, deve motivare la decisione di non dare corso a tale esecuzione, con riguardo alle circostanze della violazione e della personalità del suo autore. Una scelta normativa la cui rigidità non è esente da seri dubbi di illegittimità costituzionale.

Perché, a questo proposito, le cronache hanno richiamato la decisione recente del Conseil Constitutionnel?

Perché il Tribunale avrebbe dovuto tenere conto proprio e soprattutto della recentissima decisione del Conseil del 28 marzo 2025, che ha istituito una cosiddetta riserva di interpretazione, affermando che, affinché siano rispettati il diritto di elettorato passivo garantito dall’art. 6 della Dichiarazione del 1789 che è parte integrante della Costituzione francese vigente, e la libertà degli elettori, il giudice deve sempre valutare la proporzionalità delle pene privative di tale diritto, in rapporto agli elementi del caso. È bene segnalare che, in forza dell’art. 62 della Costituzione francese, le decisioni del Conseil “si impongono” anche al rispetto dell’autorità giudiziaria.

Cosa ha fatto invece la presidente della sezione del Tribunale che ha emesso la condanna a carico di Le Pen?

Ha dichiarato, testualmente, che “Le tribunal a pris en considération, outre le risque de récidive, le trouble majeur à l’ordre public, en l’espèce le fait que soit candidate à l’élection présidentielle une personne déjà condamnée en première instance”. A parte l’improbabilità di una recidiva tra la conclusione del giudizio di primo grado e l’appello – come ha ben rilevato Benjamin Morel su Figarovox del 5 gennaio 2024 –, è grave che si possa ritenere un problema di ordine pubblico il fatto che uno dei massimi esponenti di uno dei maggiori partiti di opposizione si candidi alle elezioni presidenziali benché condannata, soltanto in primo grado, per aver utilizzato, pur sempre a fini politici, fondi erogati dal Parlamento europeo per pagare i suoi assistenti.

Le obietto: dove starebbe questa “gravità”?

È quanto dire che sul diritto costituzionale di accedere alle cariche elettive e sul corrispondente diritto di scelta degli elettori, prevale, in questo momento storico, un’esigenza impropriamente vestita dei panni di una sorta di ordine pubblico “morale”: quella di impedire la candidatura di Le Pen, tanto più in rapporto al suo rilevantissimo consenso nell’opinione pubblica.

Nel giugno 2024, tempo di elezioni in Francia, circolava tra i magistrati uno strano comunicato del Syndacat de la Magistrature, nel quale si lanciava a tutti i magistrati un appello alla mobilitazione “contre l’accession au pouvoir de l’extrême droite”. Sembra una profezia avverata.

È fondato il sospetto che il Tribunale si sia ispirato a quel comunicato stampa. Già solo la delicatezza della questione cui si è fatto cenno, concernente la spettanza al potere giudiziario di definire quali siano le mansioni effettivamente funzionali all’attività parlamentare, avrebbe dovuto, viceversa, suggerire particolare prudenza al Tribunale, che avrebbe trovato corrispondenza nella specifica natura dei fatti oggetto di contestazione penale. E ciò tanto più se si considera che, paradossalmente, la provvisoria esecuzione della pena di ineleggibilità non incide sul mandato parlamentare della Le Pen, in ragione dell’effetto sospensivo della condanna in pendenza del termine per l’appello, come ha precisato il Conseil Constitutionnel (decisione del 23 novembre 2021). Ma ci sono altre ragioni che il Tribunale avrebbe potuto e dovuto considerare, soprattutto a tutela della vita democratica.

Quali sono?

Le misure interdittive dell’esercizio di diritti politici costituiscono una deroga a principi fondamentali e devono quindi trovare solide ragioni fondative e argomentative, ancor più laddove possano essere inflitte in base ad una sentenza non definitiva. Nel caso Le Pen, l’immediata privazione dell’elettorato passivo rischia di impedire la candidatura – e, quindi, la campagna elettorale – prima che intervenga la decisione in appello che, com’è accaduto in altri casi, potrebbe essere in tutto o in parte favorevole a Le Pen.

Vuol dire che in uno scenario simile, il danno subito da Le Pen e soprattutto dagli elettori, non potrebbe in alcun modo essere riparato.

Di più: anche se la sentenza favorevole giungesse prima della tornata presidenziale, in ogni caso il tempo della campagna elettorale non potrebbe essere reintegrato.

Il giudice ha applicato la legge. Che parte ha il legislatore in questa situazione?

Lascia molto perplessi la scelta del legislatore francese di consentire che simili pene accessorie possano essere eseguite prima che la condanna sia divenuta definitiva, consentendo oggettivamente al potere giudiziario di determinare effetti sulle libere elezioni che possono essere definitivi, proprio come in questa vicenda.

Insomma, si è trattato di una sentenza integralmente politica.

Certo. Prima del passaggio in giudicato, le valutazioni circa la dignità “morale” dei candidati dovrebbero competere esclusivamente ai cittadini, ai quali parimenti spetta di far valere la responsabilità politica. Sono prerogative essenziali per la democrazia. La loro alterazione sottende l’idea che il popolo non sia capace di simili scelte e abbia quindi bisogno di tutori che lo tengano lontano da “cattive influenze”.

(Federico Ferraù)

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