Come si può parlare di argomenti seri, duri e complessi ai bambini senza dover edulcorare, senza farli sentire piccoli, tanto piccoli da “non poter capire”? La risposta a una domanda prima pedagogica e poi artistica pare darla La mia vita da zucchina, il film d’animazione di Claude Barras che dopo essersi fatto amare alla Quinzaine del Festival di Cannes e aver raccolto molti riconoscimenti internazionali (è il rappresentante svizzero nella corsa all’Oscar per il film straniero), arriva nelle sale italiane.
Il film racconta di Icare, o come lo chiamava la mamma Zucchina, che dopo la morte della donna e l’abbandono del padre viene trasferito in una casa-famiglia. Qui dovrà imparare a fare i conti con i propri sentimenti, crescere rapportandosi agli altri e capire quali sono le gioie che può dare una famiglia, anche se composta da persone con cui non ci sono legami di sangue.
Scritto dal regista con Céline Sciamma, Germano Zullo e Morgan Navarro, su soggetto di Gilles Paris, La mia vita da zucchina è un film animato in stop-motion in cui il romanzo di formazione di un orfano, la lotta all’apparenza paradossale per crescere recuperando la bellezza e la gioia dell’infanzia, diventa anche un dramma sociale in cui la tristezza, il dolore, il trauma diventano l’argomento del racconto, non un semplice sfondo.
Già l’apertura è indicativa per i temi e i modi che Barras ha scelto: la morte della madre di Zucchina, raccontata in diretta ma senza sensazionalismo, anzi scegliendo un tono dimesso e crepuscolare, che suggerisca, che lavori sul fuori campo, sul non detto senza però omettere. Così come i drammi dei compagni di classe di Zucchina (abbandoni, genitori drogati violenti o criminali, molestie e abusi) sono detti con un equilibrio tra realismo e poesia, crudezza spiazzante e reinvenzione giocosa che rende il film un gioiello.
Soprattutto perché Barras utilizza l’animazione a passo uno, con pupazzi in plastilina e design che ricordano i disegni con cui il protagonista riempie fogli, pareti e aquiloni, con grande intelligenza, sfruttando anche graficamente quel punto di contatto tra toni e stati emotivi che lo rende narrativamente unico: così facendo il crescendo del film verso il lieto fine – che diventa anche uno sguardo non banale sulle realtà delle istituzioni di assistenza sociale, spesso maltrattate da cronaca e narrativa – non dimentica mai la sofferenza che forse ci si lascia alle spalle.
La mia vita da zucchina è un film in cui Barras e il suo gruppo di autori trovano, con un lavoro meticoloso, un grande esempio di sintesi artistica, di intelligenza cinematografica e narrativa, di capacità di parlare a vari pubblici non giocando al ribasso, ma al contrario stimolando il pubblico con scelte formali e di racconto poco usuali. E raggiungendo con la semplicità dei grandi film il cuore delle emozioni.