Sanremo 2016: nella prima serata sono gli ospiti a tenere alto il nome del pop, mentre Carlo Conti conferma la formula nazional popolare per il Festival. Il commento di EMANUELE RAUCO

La Fanfara per l’uomo comune di Copland arrangiata in versione funk orchestrale è il segnale che Carlo Conti ha definito la restaurazione del modello Pippo Baudo. La prima serata del 66° Festival di Sanremo ha confermato quanto dimostrato dal conduttore toscano lo scorso anno: la Rai ha bisogno di nazional popolare, di elementi di varietà che la ricongiungano al grande pubblico. E formula che vince non si cambia: Conti ha presentato un festival classico, aggiornato ai tempi, ma intriso di correttezza politica e varietà. Musicale (più o meno), spettacolare e socio-culturale.



Questa edizione 2016, che Conti conduce assieme alla spigliatissima Virginia Raffaele, alla mannequin (in tutti i sensi) Madalina Ghenea e all’impresentabile Gabriel Garko (quando sul palco è stato definito grande attore è corso un brivido lungo molte schiene), è il canone festivaliero nel bene e nel male: i cantanti in gara sono solo una delle componenti di un varietà abnorme fatto per creare un evento mediatico più che per mostrare il meglio del pop nostrano. E – fatti salvi i dati auditel che al momento della scrittura non sono noti – i social hanno dimostrato un interesse acceso, venato della solita ironia, per la manifestazione. 



Dei 10 cantanti ieri in gara (gli altri 10 si esibiscono oggi, così come i giovani), sono pochi quelli che si salvano, almeno a un primo ascolto, in una serata musicalmente davvero mediocre e poco comprensibile: Enrico Ruggeri che porta un pezzo di grinta, furbizia e groove, tra rock, ska e tastiere new wave, con ritornello – come spesso – irresistibile; Bluvertigo (a rischio eliminazione) che mescolano il loro pop sbilenco alla vena di canzone d’epoca del Morgan solista – il quale purtroppo compromette il pezzo salendo sul palco senza voce; e Stadio, con una canzone tipicamente loro che però mostra il mestiere e la cura di chi sa cos’è una canzone. 



Tutti gli altri sfoderano brani dai ritmi lenti tutti uguali, tra il mediocre e il pessimo, privi di personalità, stile, capacità vocali, o perlomeno di ritornelli cantabili che almeno potessero superare la prova del primo ascolto: Arisa sfoggia il più brutto vestito della serata e una canzoncina disneyana senza passione, Dear Jack con il nuovo cantante indistinguibile da un ragazzino con poca voce, Lorenzo Fragola che perpetua il mistero della sua vittoria a X-Factor, Fornaciari che prova, inutilmente, la carta dell’impegno, Noemi a cui un pezzo di Masini sembra forse uguale a uno di Vasco, Caccamo e Iurato alle prese con modalità sanremesi che non sono in grado di reinterpretare (versione stinta di Leali e Oxa). Almeno Rocco Hunt, col solito rap populista e demagogico, ci mette il ritmo del funk.

Su 10, almeno 6 pezzi sono intercambiabili e privi di ogni mordente, nemmeno quello del brutto consapevole o del baraccone italiota (come poteva essere Il volo lo scorso anno). Sono gli ospiti a portare alto il nome del pop: Elton John al piano tra classici e novità, Laura Pausini in un coinvolgente medley. E sono i comici outsider (non certo Aldo Giovanni e Giacomo costretti al riciclo di Pdor) a salvare un po’ il varietà: Raffaele ha tenuto il palco per tre ore imitando Sabrina Ferilli con umorismo verace e affilato, mentre Rocco Tanica ha condotto in modo superbo il suo piccolo angolo finale di rassegna stampa (il mensile porno come organo di riferimento di La destra di Storace). 

Non è questione di rodaggio, ché i meccanismi e i loro ritmi smorti sono sempre quelli e non s’inceppano, ma di formula: immobile. E forse per questo vincente, innocua e funzionante, capace di attrarre tutti, con almeno qualcosa che possa andare bene a ogni gusto conservatore o progressista che sia, mentre all’apparenza li respinge. Non è forse questo il segreto di Pippo Baudo e dello spettacolo nazional-popolare?