Esce la nuova versione “muscolare”, ricantata e risuonata dal vivo, di uno dei più grandi best seller del pop italiano
C’era una volta il pop cantautorale, quello inciso sui padelloni neri di vinile, oggetti del desiderio che noi, giovani appassionati, correvamo a comprare per averli al più presto tra le mani, avvolti da copertine (alcune vere e proprie opere d’arte) appena annunciato il giorno d’uscita nei negozi specializzati, che oggi sono tutti diventati boutique della moda o negozi della tecnologia telefonica.
Essere pop in quei tempi non era l’etichetta di musica banale, un sottoprodotto poco autorevole, ma era considerato un valore dell’ingegno autorale dell’artista che colpiva l’immaginario fantastico del mondo personale di chi ascoltava, proiettandolo dentro la trama dei più stretti rapporti quotidiani.
Che si scrivesse e si cantasse per un chiaro messaggio politico, nell’impeto collettivo di una generazione che stava vivendo il travaglio di una trasformazione sociale e culturale o che desse voce semplicemente ai piccoli gesti dei rapporti affettivi, nonostante qualche diffidenza intellettuale pregiudiziale, c’era una trasversalità entusiasta di ascolto e di stupore.
Chi non ricorda l’aneddoto storico del ritrovamento in un covo delle BR di una collezione di dischi di Lucio Battisti, ritenuto dai “cattivi maestri” rivoluzionari del tempo un disimpegnato cantore degli amori giovanili, addirittura un reazionario foraggiatore delle formazioni neofasciste?
Ma se Battisti (grazie anche alle astute “storie” di Mogol) fu giustamente sdoganato dalla critica più illuminata, non si può dire la stessa cosa del cantautore che per tutti gli anni 70 e per buona parte degli 80 è stato al livello di seguito popolare e di conseguenza nelle vendite discografiche (quelle documentate dalle hit parade radiofoniche) il vero e unico competitor: Claudio Baglioni.
Anche se ancora oggi, quando si vuole fare l’elenco della stirpe nobile dei cantautori del Bel Paese, il nome del cantastorie romano viene sistematicamente ignorato, quasi con disprezzo, come debba scontare un peccato originale mai espiato: quello di aver cantato il disimpegno sociale in nome di piccole narrazioni di amori provinciali, chiusi in domestici sentimenti, non aperti alla dialettica del mondo circostante, soprattutto affidandosi vocalmente all’arte passatista dello stornello popolare.
Tutti pregiudizi! La storia artistica e umana di Baglioni è stata tutt’altra cosa.
Si vuole qui smontare una buona volta, piaccia o no, il luogo comune del Baglioni fermo cantore delle coppiette in tempesta ormonale e finalmente addentrarci nel suo catalogo artistico zeppo di canzoni composte senza proclami politici o strepiti, brani che leggono la realtà riflettendo sulla cifra di una umanità complessa e dolente.
Analizziamo, quindi, i primi venticinque anni di carriera (dal 1970 al 1995) quelli della sua produzione migliore, quando entra in scena con l’immagine del bravo ragazzo, abbastanza cattolico, partecipando musicalmente al San Francesco cinematografico di Zeffirelli, ma già con “Questo piccolo grande amore” dovrà affrontare l’occhiuta censura radiofonica in alcuni passaggi nel testo del 45 omonimo e pure le richieste della sua casa discografica nel moderare l’incipit dell’album che viene ambientato in una manifestazione studentesca sessantottina durante una carica dei celerini.
L’album successivo (“Gira che ti rigira amore bello”), decisamente sottovalutato, era un fresco concept album popolaresco, impianto discografico preferito da Baglioni, pubblicato in pieno periodo estivo che aveva la particolarità, oggi si direbbe “politicamente scorretta” di concludersi con la morte tragica del protagonista delle tracce musicali
Un anno dopo (creatività a mille!) “E tu” ancora estivo ma nella tracklist compare la versione, musicata per l’occasione di una poesia dialettale di Trilussa contro la guerra e il potere guerrafondaio.
Ancora un anno e l’album “Sabato pomeriggio” (“Passerotto non andare via …”) contiene “Poster”, dal sapore vagamente nichilista che tratta la “fuga dalla realtà” di un povero cristo.
Tutto l’album successivo “Solo” (copertina nerissima) decreta la fine del sodalizio con il suo mentore e fino ad allora collaboratore alle musiche e produttore Antonio Coggio: è una serie di “istantanee” su storie di persone sole e lasciate sole nel proprio malinconico destino, viene riproposto anche un brano semi dialettale, scritto in gioventù quando, ancora Baglioni era solamente un giovanissimo autore, venne inciso da Mia Martini dove il protagonista che affronta la sua solitudine è addirittura Gesù Cristo.
Alla fine del decennio dei settanta, l’interlocutorio “…e tu come stai?” che annovera in conclusione dell’album la cronaca di un suicidio per annegamento.
1981: cambio di etichetta e salto di maturità sia musicale che nei testi. Stessi studi londinesi stessi musicisti e stesso arrangiatore del Battisti di “Una donna per amico”: è il grande successo di “Strada facendo”, liriche introspettive con un di più di empatia, come nel piccolo gioiello de “I vecchi”, che avrà consensi anche da colleghi di diversa estrazione culturale e musicale come Dalla, Vecchioni e Jannacci.
Dopo quattro anni, “La vita è adesso” di cui parleremo più avanti.
All’apertura dei ’90, il sofferto e più volte rinviato “Oltre”, doppio album, da molti ritenuto il suo capolavoro, ma composto con un’ansia da prestazione artistica, alla ricerca di soluzioni compositive forse un po’ troppo forzate. Per colpa anche di un mixaggio pessimo il prodotto non ha l’immediatezza e la freschezza dei precedenti e pecca di ridondanza, nonostante la potenza di fuoco nella produzione e nelle prestigiose collaborazioni (anche internazionali) in studio.
È il desiderio di essere ormai considerato adulto, con alle spalle pure un sofferto fallimento del matrimonio (con la “storica” Paola Massari, madre del suo unico figlio Giovanni); fine di un rapporto nato dagli anni giovanili a cui dedica i brani di punta “Mille giorni di te e di me”, un po’ stucchevole, e la drammatica e coinvolgente “Tamburi lontani”.
Un tema che riprenderà cinque anni dopo con l’album “Io sono qui” nella splendida “Fammi andar via”. Questo album si può ritenere il suo ultimo classico: da lì in poi, la vena compositiva, per forza di cose si inaridisce, la logorrea nei testi si accentua e dei quadretti freschi di storie quotidiane e popolari, che come abbiamo visto non riguardavano solo le coppiette in amore, non c’è più traccia, pur rimanendo abbondantemente ad un buon livello qualitativo e professionale, come d’altronde, almeno negli ultimi trent’anni capiterà anche agli altri cantautori suoi coetanei.
Segnaliamo, comunque “Patapàn” (2003), commovente dedica al padre scomparso e il buon esito compositivo del suo (per ora) ultimo album di inediti nel 2020: “Questa storia che è la mia”.
Distratto da un incalzante e debordante gigantismo nei progetti multimediali e da una certa sovraesposizione televisiva, considerata un antidoto per combattere la sua innata timidezza, in questi ultimi mesi Baglioni ha annunciato un vago ritiro dalle scene dal 2026, quando avrà 75 anni, ma non si escludono ripensamenti.
E infatti, per celebrare i quarant’anni dalla pubblicazione di un suo album fondamentale “La vita è adesso” eccolo che ritorna in pista con un nuovo disco che ripropone l’album celebrato ricantato e risuonato dal vivo in studio.
L’album, al tempo, fu atteso come conferma dell’evoluzione umana e artistica del cantautore di Centocelle suggellata dal precedente “Strada facendo” e le attese non vennero deluse: c’era uno sguardo sempre più profondamente curioso su una umanità che viveva la realtà quotidiana, con almeno tre “picchi” poetici: “La vita è adesso” canzone” inno” che continua il tema del viaggio “esistenziale”, “E adesso la pubblicità”, l’invadenza televisiva nei rapporti famigliari (oggi si parlerebbe del ruolo invasivo dei social) e “Uomini persi”, un originale sguardo su terrorismo e chi organizza l’industria bellica per i propri guadagni, tema più attuale che mai.
Se nel 1985 l’arrangiamento orchestrale era affidato agli archi della “London Symphony Orchestra” capitanati dall’allora emergente Celso Valli, nelle nuove versioni l’uso rock dei fiati sembra avere come riferimento l’ultima versione della E-Street Band, immaginando un Baglioni nel ruolo del Boss Springsteen.
C’è chi ha definito i nuovi arrangiamenti “muscolari” e qui lo riaffermiamo convinti: 21 musicisti pronti a seguire il “capo” in una rilettura scintillante e “rock” di canzoni non segnate da 40 anni di esistenza. Una sezione di scalpitanti fiati onnipresente, chitarre funky, una batteria volitiva, violini quanto basta, un coro di pudico “sostegno” e, soprattutto la voce di Baglioni in forma smagliante e udibile distintamente sopra la bagarre orchestrale.
E tutto live!
Insomma, un ascolto che soddisferà i fan più storici e chi, abitando su Marte, non ha mai sentito questa pietra angolare del pop italiano (si può ben dire) d’autore.
Un collega di Baglioni, un maestro di umanità come Enzo Jannacci, di lui affermava: “Claudio ha questa grande capacità di trasformare in parole le immagini che gli arrivano dal mondo. E’ un poeta e musicista vero. Esprime una sofferenza che lui stesso ha provato, è una persona timida con l’attenzione ai timidi. E non ultimo canta molto bene”.
Oggi il cantautore romano confessa: “La verità è che ‘la vita è adesso’ come espressione, non basta. Va bene cogliere ogni momento, ma serve un fondale di sogno, l’aspirazione per qualcos’altro. Per me, questo sogno è essere curioso del giorno che verrà”.
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