Si lavora alacremente in tutto il mondo non solo per trovare l’auspicato vaccino (il presidente americano Trump ha detto che il suo paese è vicino ad averlo), ma anche per produrre o testare i farmaci in grado di curare e salvare chi viene colpito dal Covid. Come ci ha detto in questa intervista il professor Giorgio Palù, virologo dell’Università di Padova e già presidente della Società europea di virologia, “si contano in tutto il mondo almeno 140 laboratori che si dedicano alla ricerca del vaccino, ma il problema non è essere i primi a trovarlo. Non avremo una produzione per tutta la popolazione se avremo una seconda ondata invernale, perché il vaccino sarà solo sperimentale e dovremo anche vedere quale sarà il più efficace”.
L’ultima speranza in fatto di farmaci anti-Covid arriva dal desametasone, un antinfiammatorio steroideo, che sembrerebbe ridurre di molto il tasso di letalità nei pazienti. È una speranza ben fondata?
Ricordiamoci che all’inizio della pandemia il ministro francese della Salute aveva detto: mai prendere antinfiammatori. Poi abbiamo scoperto che il Covid-19 è clinicamente più complesso di quello che pensavamo. Episodi iniziali che sembravano rimettersi, poi la ripresa del virus, infine una forte infiammazione disseminata in tutto il corpo che portava alla morte.
Quindi si sbagliava: gli anti infiammatori vanno usati?
Il cortisone fa benissimo, lo avevamo già capito, poi l’Università di Oxford ha condotto uno studio approfondito su pazienti con forme avanzate di Covid. Ha misurato come parametro fondamentale primario un gruppo di controllo e un gruppo con desametasone, e nel secondo gruppo la mortalità si era ridotta del 35%. Questa è la prova che si fa in un trial clinico corretto, ma noi stavamo già usando gli anti infiammatori stereoidei, ci eravamo già accorti che nelle fasi avanzate si verifica una tempesta citochinica.
Che sarebbe?
Nella fase più grave della malattia si scatena una tempesta di sostanze infiammatorie, un processo avviato da globuli bianchi che rilasciano sostanze che attraggono altri globuli bianchi. Questa produzione di sostanze infiammatorie attiva poi un mediatore intracellulare chiamato NF-kB, un attivatore da risposta infiammatoria innata, un modo di far fuori i virus, i batteri. Ma quando questa risposta è esagerata, si ritorce contro il paziente stesso. Il cortisone agisce in questa fase come altri inibitori, farmaci che si danno a chi soffre di forme artritiche. Insomma, quella del cortisone è una conoscenza medica già acquisita e dagli effetti benefici evidenti.
Uno studio del San Raffaele ha portato alla ribalta anche il Mavrilimumab, un anticorpo monoclonale che ha aiutato in modo sicuro ed efficace tutti i pazienti che lo hanno assunto a guarire. Di cosa si tratta?
È un altro antinfiammatorio usato nell’artrite rematoide contro uno dei mediatori intracellulari del segnale. La funzione è sempre quella: bloccare l’infiammazione quando è scesa più in basso, a valle.
Cattive notizie arrivano invece dal Tocilizumab, farmaco anti-artrite reumatoide: l’Aifa ha dichiarato che non offre alcun beneficio.
Come la clorochina e tutti i farmaci antivirali. Sembra che questo virus sia chissà quale mistero, certamente è un virus nuovo, ma come con tutti i virus gli antivirali e gli inibitori di funzioni cellulari asservite dai virus vanno somministrati nelle primissime ore dell’infezione e non nelle fasi più avanzate. Molti reumatologi e pneumologi mi dicono che hanno visto casi risolti, ma è scienza solo ciò che è documentato.
Secondo uno studio dell’Università Bicocca e Asst di Monza, avere un gruppo sanguigno piuttosto che un altro può fare la differenza quando ci si ammala di Covid-19. È così?
È uno studio della Bicocca e dell’Asst di Monza, uscito sul New England Journal of Medicine, condotto insieme a tedeschi, spagnoli e australiani. Sembra che chi ha sangue del gruppo A sia predisposto al virus, mentre chi ha il gruppo 0 sia relativamente resistente. Hanno studiato i 20mila geni di cui dispone l’uomo, per vederne il loro polimorfismo, trovando una associazione tra manifestazione di Covid e attività di geni che producono sostanze infiammatorie (citochine e chemiochina). È comunque uno studio iniziale da provare sul singolo gene.
Trump ha annunciato che negli Stati Uniti sono vicini a un vaccino. Potremmo essere in anticipo rispetto ai tempi finora ipotizzati?
Ci sono più di 140 laboratori in tutto il mondo, chi ha cominciato per primo è la Biotech Moderna di Boston. I cinesi hanno individuato due possibili vaccini, uno con un virus inattivato che mi convince molto perché ha protetto animali modello, i macachi, dall’infezione. Nelle scimmie possiamo riprodurre la malattia, e se noi riproduciamo la malattia possiamo poi provare il vaccino. Gli americani, invece, ma anche i tedeschi e gli inglesi, hanno provato direttamente su volontari umani per andare più velocemente, utilizzando piattaforme di virus non patogeni, usati come vettori. Questi vaccini non si potranno subito essere usati per la popolazione normale ma dovranno essere in via sperimentale per i soggetti più esposti all’infezione.
Quale vaccino vincerà?
Il vaccino che vincerà non può indurre solo anticorpi neutralizzanti, questi bastano quando il virus si è diffuso in tutto l’organismo. Serviranno per questo vaccini che inducano anche una forte risposta cellulomediatica.