L’ex capo della Cia in Italia, Jeff Castelli, è stato condannato a sette anni di carcere per il caso Abu Omar. La sentenza è giunta ieri di fronte alla Corte d’Appello di Milano nel processo “stralcio” per il sequestro dell’imam terrorista di viale Jenner. In primo grado Castelli era stato assolto in quanto si era ritenuto che godesse dell’immunità diplomatica. Stesso percorso per altri due agenti della Cia, che in primo grado erano stati prosciolti e poi sono stati condannati a sei anni dalla Corte d’Appello. Ilsussidiario.net ha intervistato Stefano Dambruoso, ex pm che all’epoca si occupò in prima persona delle indagini sulla moschea di viale Jenner.
Nel complesso qual è il significato del caso Abu Omar per la giustizia in Italia?
Un principio fondamentale nel contrasto a tutti i crimini transnazionali, e in particolare al terrorismo, è che la cooperazione tra i Paesi impegnati nel contrasto al crimine è decisiva. In quest’ottica un’operazione di prevenzione contro persone coinvolte in atti di terrorismo andava fatta, ma non con le modalità adottate dalla Cia. La cooperazione non può arrivare ad accettare la realizzazione di clamorosi reati come quelli del sequestro di persona ai fini che abbiamo poi scoperto essere stati perpetrati, cioè torturare Abu Omar. La cooperazione è importante, se ne ribadisce l’importanza tra i Paesi impegnati nella lotta alla criminalità transnazionali, ma con il limite del rispetto dei diritti fondamentali che devono essere garantiti soprattutto da Paesi democratici come l’Italia e gli Stati Uniti.
Che cosa l’ha colpita di più da quanto è emerso dalle indagini che lei ha svolto personalmente?
Il fatto che se non fossero intervenuti gli americani, noi avremmo arrestato Abu Omar, avremmo fatto un regolare processo e gli avremmo inflitto anche una condanna pesante. La pena sarebbe andata dai sette ai dieci anni, per partecipazione ad associazione che supportava il terrorismo internazionale, e l’ex imam si troverebbe tuttora nelle nostre carceri. Invece così oggi Abu Omar è libero, anche se ha sofferto le torture nella prigione egiziana.
Ritiene che l’emergenza successiva al 2001 non permettesse una procedura eccezionale come quella adottata dalla Cia?
Assolutamente no. Lei tocca il tema che si è riproposto più volte del giusto bilanciamento fra diritto alla sicurezza, che deve essere garantito a tutti i cittadini, e sicurezza dei diritti anche degli imputati. Per garantire il massimo della sicurezza non si possono abbattere e violare diritti che sono ritenuti fondamentali. Un conto è se per combattere il terrorismo si compie un ingresso abusivo in una casa, e quindi una violazione di domicilio. Altra cosa è sequestrare una persona per torturarla al fine di farla parlare. Il bilanciamento salta quando ci sono questo tipo di condotte.
Che cosa ne pensa della scelta della Corte d’Appello di non applicare l’immunità diplomatica a Jeff Castelli?
L’immunità diplomatica ha una sua disciplina ben precisa. Ci sono attività che sono riconosciute come immuni dalla relazione giuridica, a differenza di altre che non lo sono. In questo caso non è stata riconosciuta l’immunità sia per la gravità dell’episodio criminale in sé, sia per l’inapplicabilità alle stesse persone. Gli agenti della Cia sono arrivati in Italia senza il riconoscimento dell’immunità diplomatica. Nel caso della vicenda di Abu Omar il reato, nella sua gravità, non si può coprire con l’immunità diplomatica. Il diplomatico che paradossalmente dovesse compiere un omicidio non può certo essere esonerato dalla responsabilità penale.
Come strumento per combattere il terrorismo, è meglio il carcere o l’estradizione?
Finché certi Stati erano retti dai regimi totalitari precedenti alle primavere arabe, rispedire i terroristi nei loro Paesi d’origine era una misura particolarmente efficace. Oggi in realtà come Tunisia, Libia ed Egitto, dove non ci sono ancora governi stabili, la stessa garanzia che l’estradizione funzioni negli stessi termini preventivi è minore rispetto al passato. Oggi tra estradizione e carcere è quindi più funzionale il carcere.
(Pietro Vernizzi)