BAMBINA DECAPITATA/ Se “Allah è grande” diventa il grido del nostro vuoto
Orrore a Mosca: ieri una donna di 39 anni, Gyulchehera Bobokulova, ha ucciso e decapitato la bambina di cui faceva la baby sitter, ed esibito la sua testa per strada. FEDERICO PICHETTO

Un forte fattore di stress, il vuoto dentro e la scorciatoia di un’ideologia. Sono questi i tre elementi che animano la vicenda di Gulchekhra Bobokulova, 39 anni, russa, che nella mattinata di ieri si aggirava in una stazione della metropolitana di Mosca con in mano la testa di una bimba di 4 anni. La donna era la baby sitter della bambina e, dopo una presunta crisi nel rapporto col proprio marito, ha ucciso e decapitato la piccola e poi dato fuoco all’appartamento. Gyulchehera si aggirava con la testa vagheggiando molti slogan tra cui quello classico del fondamentalismo islamico, “Allah è grande!”.
Non ci sono parole per raccontare una storia dove il vuoto di una moglie, dinnanzi alla fatica del rapporto col marito, si è trasformato in frustrazione cui l’ideologia islamista ha fornito nutrimento portandola al gesto estremo di perdere ogni contatto con la vita in favore dei suoi pensieri, delle sue ossessioni, della sua ideologia. Curiosamente questa donna diventa il simbolo di un’epoca — la nostra — in cui il dramma su cui si innesta ogni violenza e ogni rivendicazione è il mancato contatto con la realtà. Senza stare nel contatto col reale i pensieri, i pregiudizi, le ossessioni, prendono il sopravvento e quello che rimane non è “quello che c’è”, ma solo “quello che pensiamo”.
L’abisso fra noi e la realtà è lo spazio dove emerge tutto il nostro vuoto, il nostro dolore, e dove l’esigenza di una risposta alla nostra domanda di bene ci travolge e ci assale. Il male non è riducibile solo ad una patologia psichica, ma è anzitutto la distanza che ci separa dall’esistenza e che ci fa cogliere tutto come secondario rispetto alle nostre idee, al nostro ordine, alla nostra volontà. Tutto così diventa un gioco: i sentimenti degli altri, i bambini, le persone. E niente ci appare più come grave. Solo il nostro vuoto, il nostro dolore, lo è davvero. L’islamismo in questa storia diventa lo spunto per esprimere una patologia più profonda che è l’incapacità di permanere nel rapporto con le cose e con noi stessi.
L’Occidente non muore a causa di nuove ideologie assassine, l’Occidente muore tutte le volte che perde curiosità e passione per la realtà, per il vero, per l’esistente. Ogni sforzo educativo o è teso a far recuperare la familiarità con il dato, con ciò che c’è, oppure diventa un estremo tentativo di trasmettere all’altro un’idea, un giudizio, che non nasce dalla propria esperienza, bensì da quella del vicino.
Questo, fino a vent’anni fa, poteva andare bene per la fiducia che animava la relazione fra generazioni, ma nel tempo del sospetto l’unico antidoto alla violenza ideologica, al vuoto che diventa azione e manipolazione, è un cammino, una strada, che parta dalla realtà e aiuti tutti — il giovane come l’anziano — a recuperare una coscienza delle cose, di quello che esiste. L’Occidente non ha altra strada davanti se non l’appassionata ricostruzione del filo che lega ogni uomo alla realtà, all’esistenza. Senza questo filo tutto svanisce, tutto è posticcio, tutto è inculcato. Ma mai, in definitiva, imparato. Ed è questo che porta una donna a girare per una città con la testa di una bambina a penzoloni. Perché prima dell’ideologia c’è il vuoto che la genera. Quel vuoto di cui sono spesso piene le nostre aule di scuola e che considera la violenza come una possibilità, come una scorciatoia, come un’occasione. Dio non deve niente a ciascuno di noi. Egli ci ha dato tutto: ci ha dato il cuore, ci ha dato la realtà, ci ha dato la ragione. O queste tre cose si incontrano e diventano esperienza di bene e di edificazione reciproca oppure la vita si potrà trasformare, dopo anche una banale lite col proprio marito, in un ostaggio del pensiero. In una vittima certa della propria sete di morte.
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