Può capitare di trovarsi a scrivere il pezzo di più duro, estremo teatro. Quando Dio va a morire come uno schiavo. Come un cane. Teatro in cui ogni scena si smarrisce e, forse, si può ritrovare. Quando il figlio di Dio, il più bello tra i nati di donna diviene uomo di ogni pena sfigurato.
M’è capitato, un tre anni fa, su richiesta del cardinale di Bologna Caffarra. E sì, c’erano gli illustri precedenti. Avrei potuto appoggiarmi alla poesia costruita per blocchi, tensioni, novecenteschi e giotteschi corpi di Claudel, il poeta che si convertì leggendo Baudelaire e portò nel freddo magnifico simbolismo francese la fisicità estrema del suo nuovo medioevo. La sua via crucis è forte e riprende le misure delle antiche sacre rappresentazioni. Oppure il precedente, di pochi anni fa, di uno dei miei maestri, Mario Luzi. Che alla richiesta di Giovanni Paolo II ebbe l’azzardo di dare voce a Lui, al Condannato. Di far dire la Via Crucis proprio a chi sulla croce stava salendo. E così scrisse memorabili pagine della malinconia di Gesù nel lasciare quanto di umano aveva assunto e amato. Teatro della più inimmaginabile coscienza. Della più controversa vicenda: la morte di Dio in un uomo.
C’erano dunque questi precedenti a cui provare ad appoggiarsi. Ma ognuno di questi tornava nella propria fiera irripetibile solitudine e bellezza. Mi indicavano dei problemi, più che offrire delle soluzioni, se così si possono chiamare i modi di dar rilievo, voce e carattere a queste figure che nella cristianità diffusa e dispersa tutti conoscono. E il primo enorme problema, appunto, sta nella domanda iniziale e scoscesa: di chi è la voce che parla? È, come in Claudel, qualcuno che osserva la scena, forse noi stessi, tutti coloro che il poeta convoca?
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I fedeli che seguono la scena, dalla distanza e dalla prossimità della loro via dolorosa? O chi rompe il silenzio vociante della scena, la confusione dove a mille d’altre vocalità di mercanti, di militari, di passanti casuali si dev’essere frammista quella brulicante scena di dolore, le poche parole, gli scambi rari, e molto probabilmente quel tenersi per gli occhi a cui ha dato spazio il forte film di Gibson? Quel tenersi, dico, da sguardo a sguardo che non ha bisogno di parole, tenersi anche mentre si va alla morte e non si deve dire più niente.
Dunque: chi parla nel dire la via crucis. Io scelsi nella mia (Via crucis dell’amico, Marietti) di dar voce a Pietro. All’amico che vedeva il suo amato andar giù, a tratti come un pugile suonato. Lui avrebbe dovuto essere il suo secondo, essergli accanto e invece, come gli altri smarrito, ha forse guardato da lontano la scena. Ho dato voce a chi ama e tradisce il condannato. A chi non ha saputo star lì, nella suprema ora e pur è come se fosse lì. In una specie di doppia passione. Ho scelto questa inenarrabile scena. Quasi aggiungendone una a quelle già impossibili da descrivere.
Questa fu la mia scelta. Da lì vedendo le donne, la madre, Veronica, l’uomo di Cirene, e il grido e l’abbandono. Altre ce ne saranno. Perché la Passione continua a dire. A essere il teatro da scrivere e riscrivere. A cercare occhi per essere guardata, e dunque parole perché il suo racconto infinito si passi tra generazioni.