9 MAGGIO 1978/ Perché Moro non riuscì a smuovere la “pietà” della Dc?

- Salvatore Sechi

Il 9 maggio 1978 veniva ritrovato a Roma in via Caetani, ne bagagliaio di una Renault 4 rossa, il cadavere di Aldo Moro. SALVATORE SECHI si chiede perché la Dc cambiò strategia

aldomoro_brigaterosseR439 Aldo Moro (1916-1978) (Foto dal web)

Durante la sua detenzione nel carcere delle Brigate rosse il presidente della Dc, Aldo Moro, affronta l’argomento del rapporto da stabilire col terrorismo.

Lo fece nei confronti di chi (a cominciare da Giulio Andreotti, dal gruppo dirigente del Pci, del Pri ecc.) sostenevano che fosse impossibile una sua liberazione solo imbastendo una trattativa col terrorismo brigatista. Ovviamente essi sapevano che ciò avrebbe comportato un prezzo elevatissimo, cioè la demolizione della sovranità dello Stato (peraltro non di salute eccelsa) e anzi una sua resa al potere e alla volontà dei propri carnefici. E dall’altra parte la legittimazione delle Br.

Moro assolve ad un dovere di verità, oltreché di convenienza personale, ricordando ai propri (in apparenza immemori) compagni di partito e collaboratori come col terrorismo arabo palestinese il governo italiano avesse sempre trattato.

Ecco quanto scrive in una lettera indirizzata alla Dc, recapitata il 28 aprile1978. In quelle che si possono chiamare le “lettere palestinesi”, Moro ricostruisce le linee, e i valori, della politica estera del suo partito e dei governi da esso giudati. Il Sid (Servizio informazioni difesa, ndr), secondo il suo capo (il generale di corpo d’armata Vito Miceli), “ha evitato una serie di stragi progettate in Italia mantenendo rapporti di equilibrio, e quindi di reciproca comprensione, se non proprio di amicizia, con Arafat, il capo dell’Olp”, compreso il “fronte del rifiuto”.

La svolta ebbe luogo dopo la strage del 17 dicembre 1973. In quella occasione un gruppo di feddayin penetra, senza subire alcun controllo, al banco col metal-detector, nell’aeroporto romano Leonardo da Vinci (Fiumicino). Assalta a colpi di bombe al fosforo un aeromobile della Pan Am. Lascia sul terreno 31 persone, 5 italiani e 26 stranieri. E prende in ostaggio il personale di un altro aereo, questa volta della Lufthansa, dirottandolo. Un ostaggio italiano verrà poi assassinato e il suo corpo abbandonato sulla pista dell’aeroporto di Atene.

A parte Ustica (dove contro il DC-9 dell’Itavia fu consumata un’azione di guerra), questo fu il più sanguinoso massacro mai avvenuto in un aeroscalo italiano. È probabile che evocarlo comporti fare i conti con la ragion di Stato che si è impadronita della nostra politica estera, e ha finito per confondersi con la complicità col terrorismo palestinese.

Ad Aldo Moro, ministro degli esteri della Dc nel governo allora presieduto da Mariano Rumor, fu chiaro e urgente che bisognava fare ogni passo per impedire che l’Italia diventasse teatro del conflitto armato tra palestinesi e israeliani.

In seguito alla scelta maturata in questa tragica circostanza dal leader democristiano, egli dal fondo del carcere brigatista può ricordare che la linea della Dc e dei governi fu sempre quella della liberazione dei prigionieri, da trasferire in paesi terzi: “Non una, ma più volte, furono liberati con meccanismi vari palestinesi detenuti ed anche condannati, allo scopo di stornare gravi rappresaglie che sarebbero poi state poste in essere, se fosse continuata la detenzione. La minaccia era seria, credibile, anche se meno pienamente apprestata che nel caso nostro. Lo stato di necessità è in entrambi evidente”.

Moro intende contrastare l’“intransigenza del Partito comunista”, i cui dirigenti forse “vogliono restare soli a difendere l’autorità dello Stato o vogliono di più”. Ma a suo avviso, “la Dc non ci può stare. Perché nel nostro impasto (chiamalo come vuoi) c’è una irriducibile umanità e pietà: una scelta a favore della durezza comunista contro l’umanitarismo socialista sarebbe contro natura. Dunque, conviene trattare”.

Dal dirigente democristiano venne elaborata la linea dello scambio dei prigionieri politici come stato di necessità. Invece di essere una novità o una anomalia, come gli pare sostengano i comunisti e Andreotti, Moro ricorda al sottosegretario alla Giustizia Renato Dell’Andro che, invece, “essa è avvenuta ripetutamente all’estero, ma anche in Italia. Tu forse già conosci direttamente le vicende dei palestinesi all’epoca più oscura della guerra. Lo scopo di stornare grave danno minacciato alle persone, ove essa fosse perdurata. Nello spirito si fece ricorso allo stato di necessità. Il caso è analogo al nostro, anche se la minaccia, in quel caso, pur serissima, era meno definita. Non si può parlare di novità né di anomalia. La situazione era quella che è oggi…”.

Non si tratta di una mera discussione teorica. Infatti la cerchia dei più stretti collaboratori di Moro (oltre a Dell’Andro, Leopoldo Elia e Giuseppe Manzari) “al fine di evitare ulteriori e conseguenti episodi terroristici di ritorsione da parte degli stessi arabi”, redige una sorta di programma per “non trattenere” (e di fatto scarcerare) ogni palestinese arrestato. Ciò corrisponde ad una prassi di “scambi e compensazioni” in vigore, dice Moro, “in moltissimi altri paesi civili”, anche se si dimentica o si vuole far credere che “che in Italia stessa per i casi dei palestinesi ci siamo comportati in tutt’altro modo”.

Se il responsabile del Dipartimento informazioni per la sicurezza della Repubblica (Dis), ambasciatore G. Massolo ammettesse i ricercatori alla consultazione delle carte dei Servizi, e l’Archivio storico del Senato acquisisse le carte dell’archivio del Tribunale di Venezia come quelle conservate a Chieti e a Rebibbia, mettendole on line, si potrebbe dimostrare come sia stato personalmente lo stesso presidente della Dc a promuovere un’azione politicamente distensiva, ma di dubbia legalità.

Probabilmente su pressione del colonnello Stefano Giovannone, un dirigente influente (a lui molto legato) del nostro servizio militare a Beirut, Moro si adoperò affinché il gruppetto di 5 terroristi arrestati in un appartamento di Ostia, il 5 settembre 1973, e condannati dal Tribunale di Roma per il trasporto di due missili terra-aria sovietici, da usare in un attentato contro un velivolo della compagnia israeliana El Al, potessero fruire di un apparente modesto beneficio. Furono, infatti, sistemati su Argo 16, l’aereo dei nostri servizi, ed estradati dall’Italia verso la Libia. 

Questo evento rende plausibile, e comunque per niente fuori luogo, il seguito. Mi riferisco all’idea, avanzata dall’Ufficio istruzione del Tribunale di Venezia (Carlo Mastelloni), ma respinta dal Tribunale con la sentenza di assoluzione degli imputati, che l’abbattimento dello stesso aereo sul cielo di Marghera, il 23 novembre 1973, sia stata opera del Mossad, cioè si sia trattato di una vendetta bella e buona.

Un male maggiore veniva certamente evitato. Ma si è trattato di un atto che si colloca nel quadro della ricerca della salvaguardia della reciproca sicurezza tra il governo italiano e un protagonista del conflitto mediorientale. Era tagliato sul filo della lama, destando l’allarme di Israele e dei nostri principali alleati.

L’attentato di Fiumicino, circa quattro mesi dopo, servì a ribadire la necessità di favorire una via d’uscita, cioè un patto di non belligeranza durevole. 

A farne cenno fu Bassam Abu Sharif. Considerato il ministro degli esteri del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp) negli Anni Settanta e Ottanta, in un’intervista al Corriere della Sera (agosto 2007) ha svelato in che cosa consisteva quel che venne chiamato “Accordo Moro” (ora denominato “lodo Moro”). I gruppi terroristici della guerriglia palestinese venivano autorizzati dal governo di Roma a servirsi del territorio italiano per compiere azioni connesse alla rivendicazione della loro identità nazionale e a darsi una struttura statuale (come per esempio il trasporto di armi) in cambio dell’impegno a non colpire obiettivi obiettivi nazionali sia in Italia sia nel mondo

Sullo stesso quotidiano, Francesco Cossiga conferma le dichiarazioni dell’esponente palestinese: “Ho sempre saputo – benché non sulla base di documenti o informazioni ufficiali, sempre tenuti celati nei miei confronti – dell’esistenza di un accordo sulla base della formula ‘tu non mi colpisci, io non ti colpisco’ tra lo Stato italiano ed organizzazioni come l’Olp ed il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina”. Era un modo per l’Italia di tenersi al di fuori del conflitto arabo-palestinese, o di non essere disturbata più di tanto. Ma la concessione fatta era molto benevola nei confronti dell’Olp: “i palestinesi hanno assicurato la sicurezza del nostro Stato e [l’immunità] di obiettivi italiani al di fuori del Paese da attentati terroristici – fin tanto che tali obiettivi non collaborassero con il sionismo e con lo Stato d’Israele”. Per Gerusalemme non era tranquillizzante. Per gli italiani ebrei, anche se innocenti, non era stata prevista nessuna tutela.

Ma questa ammissione di Cossiga, per quanto assai sconcertante, non sembra avere avuto l’impatto che si attendeva. Infatti non si tenne conto che a parlare era un uomo, un dirigente della Dc e un rappresentante istituzionale che non era stato sempre un amico di Israele. Negli Anni Cinquanta aveva inaugurato l’Associazione d’amicizia Italia-Palestina. E successivamente, come presidente del Senato, diede asilo, nel suo Gabinetto, ad Arafat quando contro il presidente dell’Olp era stato emesso un mandato di cattura. Nacque da questa sottovalutazione del ruolo di Cossiga, da parte dei media, la sua decisione di rivolgersi direttamente al pubblico israeliano.

L’incrinatura di questo accordo avrà luogo nel novembre 1979 ad Ortona. Anche in questa occasione da una nave battente bandiera libanese vennero sbarcati due lancia-missili di fabbricazione sovietica che saranno presi in consegna da un gruppo di esponenti dell’Autonomia romana di via dei Volsci (Daniele Pifano, Giorgio Baumgartner e Luciano Nieri). Il regista dell’operazione fu Abu Anzeh Saleh. Era uno studente (soi disant) di origine giordana che curava, per conto di George Habbash, la creazione in Italia e in Europa di cellule militari e il traffico di armi per conto dell’Fplp (Fronte popolare per la liberazione della Palestina).

In entrambi gli episodi molto forte, proprio sulla base del cosiddetto “lodo Moro”, è la richiesta da parte dei dirigenti palestinesi di restituire le armi confiscate. A loro avviso, sul territorio italiano sarebbero state solo di passaggio perché la loro destinazione finale era il Medio Oriente dove sarebbero state usate contro la popolazione e l’esercito israeliano (quasi che non fossero nostri alleati!).

Le vicende di Ostia e di Ortona rimandano ad una questione di carattere più generale che provo a formulare in questi termini:

1. il cosiddetto “lodo Moro” fu un importante patto a favore dell’esclusione del suolo italiano dalla guerra di guerriglia tra Israele e Arafat (e per garantire un approvvigionamento di petrolio stabile a buon prezzo);

2. in cambio i nostri servizi di sicurezza militari (Sid e successivamente Sismi), insieme ai magistrati, s’impegnarono a permettere al terrorismo dell’Olp e di tutte le formazioni medio-orientali confluite in essa (come il Fplp e il Fronte di Abu Nidal) di far passare, lungo il nostro territorio, un consistente flusso di armi rivolte contro Israele, in nome (col pretesto) di un obiettivo condiviso come quello di dare uno Stato ai palestinesi. 

Bassam Abu Sharif, un dirigente di primissimo piano vicinissimo ad Habbash quando, nel novembre 1979, il suo compagno Abu Anzeh Saleh e i sodali romani di via dei Volsci furono trovati con due missili terra-aria Sam 7 Strela di fabbricazione sovietica (l’episodio prima ricordato) fu molto esplicito sul punto: “Noi abbiamo bisogno di tutte le nostre armi per la nostra lotta. I missili sono destinati ad essere usati contro il nemico israeliano, per proteggere i nostri campi di rifugiati contro i bombardamenti aerei. La nostra operazione con i gruppi della sinistra occidentale è incentrata sulla nostra lotta politica contro l’imperialismo e non ha niente a che fare con i rifornimenti di armi ai gruppi che ci appoggiano. La propaganda sionista e imperialista ha cercato di far credere che i palestinesi sono compromessi in attività terroristica, come il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro e altri atti del genere. Intendiamo ribadire che la resistenza palestinese non ha e non avrà niente a che vedere con azioni simili. Il nostro obiettivo principale è la lotta contro il sionismo, contro il nemico israeliano, e contro l’imperialismo”.

Il sospetto è che a questo accordo l’Italia possa essere stata sollecitata prima o immediatamente dopo l’attentato all’aeroporto di Fiumicino. In secondo luogo la “licenza” di Moro sarebbe servita anche per coprire trasferimenti di armi dall’Fplp alle Brigate rosse, che le useranno contro esponenti delle istituzioni, giornalisti, magistrati. Si sarebbe trattato di un classico scambio tra vantaggi politici da una parte (il governo italiano) e vantaggi sul piano militare, cioè il trasporto di armi e munizioni (i palestinesi), dall’altra.

Chi lo ruppe, nella vicenda di Ortona dell’8 novembre 1979 fu il governo italiano. Perché?







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