Martina Carbonaro, Giulia Cecchettin: in una società senza autorità morali, destituite dall'universo virtuale mediatico, così si diventa assassini
A volte, da sociologi, si percepisce la sensazione di un sincero sconforto. L’assassino di Martina Carbonaro e quello di Giulia Cecchettin non hanno nulla in comune. Uno al Sud l’altro al Nord, uno manovale, e quindi da iscrivere nell’area dei lavoratori più impegnativa e faticosa che ci sia, l’altro studente di ingegneria biomedica e quindi da rubricare in quella dei giovani maggiormente privilegiati. L’uno e l’altro provenienti da famiglie ineccepibili testimoniano la loro radicale irriducibilità: uomini diversi che non hanno in comune che il loro spaventoso e inaccettabile punto di arrivo.
I famosi “contesti socio-culturali”, spesso facilmente evocati da molti di noi sociologi, non certo per giustificare (c’è da provare i brividi solo a pensarlo) ma comunque per ricostruire i presupposti delle logiche aberranti che portano due giovani incensurati a uccidere le proprie rispettive compagne, sembrano veramente girare a vuoto, risultando inoperanti e inutili. Eppure è urgente e necessario mettersi al lavoro se si vogliono rintracciare le complicità possibili che hanno spianato la strada a simili atti e, per quanto possibile, neutralizzarle.
Diventa quindi necessario frugare tra le carte di qualcosa di più generale che trascende i singoli contesti sociali, per mettere le mani nelle aberrazioni della ragione che devastano, oggi più di ieri, la psiche dei singoli. In questo caso quella di maschi adulti provenienti da ambienti e culture diverse, ma accomunati dalla stessa decisione assassina: quella di sopprimere le proprie compagne, con le quali avevano intrattenuto, o creduto di intrattenere, una relazione affettiva stabile e definitiva.
Vanno allora riaperte le mappe morali della nostra società, occorre ispezionare questa stessa società italiana nella quale tutti viviamo, fatta di famiglie, scuole, università, ambienti di lavoro, per scoprirvi una verità che oggi le caratterizza tutte: quella di non occupare più il proscenio, di non essere più autorità morali oggettivamente e inequivocabilmente riconosciute.
Non è autorità morale la famiglia, non lo è la scuola, né l’università, né il mondo dei compagni di lavoro. Tutte queste agenzie non sono più immediatamente riconosciute nella loro autorevolezza, né ritenute capaci di dettare regole ma, al contrario, si rivelano perfettamente aggirabili quando pretendono di indicare principi di vita e modelli di comportamento.
Ciò non si produce affatto attraverso una qualsiasi logica “antisistema” o di semplice contestazione, ma scaturisce automaticamente da una presenza che le precede, depotenziandole di qualsiasi autorevolezza.
Questa presenza, che si antepone a tutte, è costituita in generale da un universo mediatico immensamente più esteso di quello che ha attratto le generazioni precedenti e che ha sostituito la produzione di norme e comportamenti, modelli di consumo e stili di vita con la proclamazione della loro manifesta inutilità e le istituzioni con la loro parodia. Famiglia, scuola, lavoro (ma certamente, anche la politica come la religione o qualsiasi possibile filosofia di vita) non sembrano più essere in grado di anteporsi in nulla ad un tale ed inedito mondo vitale della vita quotidiana.
Il fatto che, come rivela Luca Ricolfi, siamo tra i primi acquirenti al mondo di cellulari dopo Hong Kong e Sud Corea e sono 35 milioni gli italiani ad essere attivi sui social, dà un’idea di quanto quest’universo, fatto di un profluvio di sollecitazioni visuali e di impulsi seduttivi, abbia sopravanzato di molto tutte le agenzie normative poste a presidio dei contesti sociali quali la famiglia, la scuola ed il mondo del lavoro. Ciò non si è affatto prodotto attraverso un attacco, bensì allargando in modo inatteso la dimensione puramente emozionale, costantemente sollecitata e riproposta, fino ad anteporsi a tutto il resto.
Non è quindi la “società”, con i suoi presìdi morali destinati ad orientare i soggetti nei valori e nei modelli di comportamento, ma esattamente, e al contrario, l’assenza di quest’ultimi, la loro decrescente credibilità e la loro sostanziale inefficacia ad alimentare la crescente autoreferenzialità che sembra emergere da ogni dove.
Si crea così uno spazio illimitato all’azione del singolo, oggi più che mai unico responsabile delle proprie scelte.
Da qui la tentazione prometeica da parte di quest’ultimo di poter tutto gestire e tutto decidere. La compagna/moglie/amante diventa così la preziosa e insostituibile collaboratrice di questa vita progettata, nella quale famiglia e scuola, professione e arte, comunità e associazione non sono che banali comprimari sempre più sbiaditi, sempre meno essenziali.
In quest’universo tutto personale e del tutto accreditato da una vita completamente inventata, il singolo trova nell’universo dei social un giullare volontariamente inabilitato a contrastarlo. Da qui lo sviluppo di un’ipertrofia delle emozioni e degli affetti dalla quale scaturisce un profluvio di selfie e di cuori, di lucchetti ai lampioni e di proclamazioni d’amore scritte ovunque che, nella loro totale autoreferenzialità, costituiscono un primo segnale di allarme. Tanto più che la totale libertà operativa che governa attualmente la vita di ciascuno lascia serenamente prosperare e rendere credibili tutte le fantasie del proprio immaginario personale.
Ogni “no” ad un tale progetto individuale risuona così come un’eco inaccettabile, un diktat gratuito e immeritato, un’offesa senza limiti per chi vive nella convinzione di poter progettare la propria isola personale della quale è l’architetto, l’unico insostituibile artefice.
Pensare di contrastare una tale deriva con delle lezioni sull’affetto e sul rispetto dell’altro prescinde dalla crisi di autorevolezza che da anni grava sulla scuola stessa ed ignora, più in generale, la sostanza del dramma che precede oramai il rapporto tra istituzione e individuo. Quello di una società che da tempo non sembra sedimentarsi più attraverso l’opera di istituzioni come la famiglia, la scuola e l’universo del lavoro, ma sembra rendersi visibile solo attraverso il mercato delle emozioni, lanciando ad ogni istante la promessa di una vita privata meravigliosa ed in sé compiuta. In un simile immaginario, l’altro non è che il fedele assistente al quale non si dà assolutamente la possibilità di scendere dal calesse della propria fantasia.
Intervenire in un simile vuoto morale è indispensabile, ricostruendo certamente il rispetto dell’altro, ma anche essendo coscienti di come ogni intervento in questo senso non può essere che un atto di ricostruzione, di riabilitazione di universi educativi e formativi ai quali va restituita la propria dignità ed il proprio ruolo.
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