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Home » Esteri » Africa » DAL CONGO/ “Non solo miniere, l’M23 vuole il Kivu e si rischia un’altra guerra mondiale africana”

  • Africa
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DAL CONGO/ “Non solo miniere, l’M23 vuole il Kivu e si rischia un’altra guerra mondiale africana”

Int. Lorenzo Timpone
Pubblicato 28 Febbraio 2025
Esercito congolese

Esercito congolese

In Congo continua l’avanzata dei ruandesi dell’M23. Vogliono gestire l’est del Paese diventato autonomo. Ecco perché si rischia un conflitto allargato

L’M23, organizzazione militare sostenuta dal Ruanda, avanza oltre Goma, nella parte est del Congo, e mira a gestire autonomamente questa regione del Paese. Il governo centrale non ha la forza militare per contrastarlo. La posta in gioco, spiega Lorenzo Timpone, responsabile Paese di AVSI in Congo, non è solo quella delle miniere e delle risorse naturali del territorio, ma anche il controllo del territorio per impedire che in Congo tornino ad agire gruppi che possano mettere in difficoltà il Ruanda, memori del genocidio del 1994 e dello scontro tutsi-hutu. E il pericolo è che proprio in quell’area scoppi una guerra mondiale africana.


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Com’è la situazione oggi in Congo? L’M23, sostenuto dal Ruanda, dopo Goma sta cercando di allargare la sua presenza in altri territori?

Sta avanzando verso sud, ha preso la città di Bukavu ormai già un paio di settimane fa e prosegue verso Uvira, città strategica al confine con il Burundi. Avendo preso le due più grandi città della parte nord del Sud Kivu, l’M23 ha bloccato qualsiasi tipo di ingresso all’est: il Congo ha davvero poche strade percorribili e, impedendo le comunicazioni su queste direttrici, si taglia fuori un’intera zona. Si combatte anche verso Walikale, che è un po’ più all’interno, sulla strada verso Kisangani, la vecchia Stanleyville, prima zona navigabile del fiume Congo. E il fiume Congo porta direttamente a Kinshasa, la capitale.


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È questo l’obiettivo, arrivare a Kinshasa e prendersi l’intero Paese?

L’M23 ha dichiarato che, se l’attuale governo non si dimetterà, vuole arrivare a Kinshasa. Penso che, in realtà, voglia avere una sorta di trattativa, che per il momento non c’è, per ottenere in gestione la regione che stanno occupando.

Vorrebbero, quindi, che il Sud Kivu diventasse una specie di regione autonoma?

Vorrebbero una semiautonomia come il Katanga, provincia protagonista di una storica battaglia per la secessione. La narrativa dell’M23 è questa: “Il governo centrale vi sfrutta, ruba tutte le risorse e le porta a Kinshasa: noi siamo qui per restituirvele”. Ha iniziato ad amministrare il territorio: non è un gruppo armato come gli altri, è ben strutturato. A Goma ha costituito una forza di polizia, occupandosi della formazione di 2mila uomini che hanno cominciato le loro attività in città, con un censimento casa per casa. Il sabato hanno organizzato il giorno delle pulizie generali: tutti sono obbligati a scendere in strada e a pulire. Stanno dando un segnale forte: “Sappiamo gestire la città”.


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La gente come considera gli uomini dell’M23, semplicemente come occupanti?

Ci sono percezioni un po’ contrastanti. Tanti sono anche stanchi della situazione precedente. In alcune zone si spera quasi che arrivi l’M23, perché non c’è fiducia nell’esercito regolare congolese e nei Wasalendo, nei gruppi Mai-Mai armati dal governo: ci sono lotte interne tra di loro, per cui nelle città che non sono ancora state conquistate si spara e si ruba perché queste fazioni si sentono di poter fare quello che vogliono. Il Ruanda, invece, è una sorta di Svizzera dell’Africa, un esempio di disciplina e pulizia. La plastica è bandita. Un Paese all’avanguardia, davvero forte. E poi c’è il Congo, che è un grande caos.

Il vero obiettivo dell’M23 rimane sempre quello del controllo delle miniere di cui è ricca la regione del Kivu?

Sì, questo tema rimane attuale, però alcuni analisti hanno stimato in 200 milioni di dollari il giro d’affari intorno alle miniere, ed è una cifra che non basta per giustificare una guerra. Alla fine, uno dei motivi della guerra potrebbe essere legato alla sicurezza stessa del Ruanda: impedire che si ricreino gruppi “figli” del genocidio del 1994.

Resta, quindi, la contrapposizione fra tutsi e hutu?

L’obiettivo potrebbe essere impedire che nell’est del Congo nascano movimenti tali da destabilizzare un Paese molto piccolo come il Ruanda. Il ministro degli Esteri congolese, nell’ultimo Consiglio di sicurezza, ha detto che in Congo vengono estratte 150 tonnellate a settimana di coltan. Numeri che non possono sostenere una guerra, anche se in prospettiva lo sfruttamento delle risorse può aumentare.

Questa avanzata dell’M23 ha provocato ancora sfollati interni al Congo?

Sì, provoca sfollati temporanei in ogni zona in cui avanza, anche se adesso le persone capiscono che, dopo un primo momento di smarrimento, la situazione si ristabilizza e poi si torna alla normalità.

C’è ancora un’emergenza umanitaria?

L’emergenza umanitaria resta, ma è recuperabile. I numeri sono ancora quelli precedenti all’operazione dell’M23. Da un punto di vista diplomatico, tuttavia, la situazione è un po’ compromessa. Molte agenzie di cooperazione legate ai ministeri degli Esteri di diversi Paesi, tra cui Germania e Belgio, hanno interrotto i finanziamenti in termini di cooperazione e anche a noi è stato comunicato di fermare tutti gli interventi nei territori occupati nella regione del Kivu. Noi eravamo già stati penalizzati dalla decisione dell’amministrazione Trump di tagliare i fondi all’estero: abbiamo diversi progetti, anche di lotta alla malnutrizione acuta, insieme al World Food Program, sostenuti da finanziamenti americani.

Nella zona di Goma, quindi, le ONG hanno difficoltà ad agire?

Non c’è l’ok di Kinshasa a entrare in quelli che oggi vengono considerati territori occupati. Anche tutto ciò che è legato alle Nazioni Unite non ha ancora avuto l’ok per rientrare. Il personale è evacuato fra Kinshasa e l’Uganda. Complessivamente, gli aiuti allo sviluppo in Congo ammontano a 3 miliardi e 400 milioni. Giusto per dare una proporzione, quelli per l’Ucraina sono 30, anche se in Congo vengono assistite il doppio delle persone in stato di bisogno.

Questa avanzata dell’M23 a che cosa può portare dal punto di vista geopolitico?

Naturalmente, nessuno si augura un’escalation regionale: nella Prima (1996-97) e nella Seconda guerra mondiale africana (1997-2003) ci sono già stati 8 milioni di morti, e la zona in cui si è combattuto è quella attualmente sotto i riflettori. Per risolvere le conflittualità relative alla Repubblica Democratica del Congo sono in corso i processi di pace di Luanda e Nairobi: speriamo che l’area non diventi teatro di scontri fra grandi schieramenti africani.

Il Congo può cercare di rivalersi sull’M23?

Il Congo la guerra l’ha già persa. Ha schierato truppe burundesi, sudafricane, il battaglione del Malawi, l’esercito regolare, i Wasalendo, i mercenari rumeni di Horatiu Potra e non è riuscito a vincere. Ora sta cercando supporto in Ciad, Angola e Zimbabwe, ma chi può aiutarlo? Speriamo che nessuno lo appoggi, altrimenti il pericolo di una guerra mondiale africana è più concreto. Come alternative ci potrebbero essere le dimissioni dell’attuale presidente congolese o comunque una sua rimozione per portare a un negoziato finalizzato alla gestione autonoma di una parte del territorio.

Quali Paesi potrebbero inserirsi nella situazione?

L’Uganda non ha appoggiato apertamente il Ruanda, ma in precedenza era schierata con Kigali.

La vostra attività nella zona di Goma ripartirà?

Vogliamo proseguire con il progetto che portiamo avanti da 50 anni tramite sostenitori privati italiani: seguiamo mille bambini, ci occupiamo della loro educazione e degli aspetti relativi alla loro crescita. Ci sono difficoltà oggettive perché le banche non si sentono sicure, non riaprono: mancano contanti e ci sono difficoltà negli scambi. Continueremo anche con un progetto di protezione dell’infanzia, quantomeno per rispondere ai primi impatti della presa di Goma: ci sono tante persone che, dai campi profughi dove ricevevano assistenza, si sono riversate nelle strade. Alcuni sono tornati nei loro villaggi, altri sono in difficoltà perché non hanno mezzi.

(Paolo Rossetti)

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