Viviamo in una società contaminata dalla realtà rappresentata. La competenza e i fatti finiscono spesso in secondo piano, schiacciati da dichiarazioni e commenti roboanti, buoni per fare audience o collezionare like, ma spesso del tutto privi di fondamento.
Nei programmi di infotainment ci si occupa con disarmante superficialità anche di argomenti complessi. È vero che in tv bisogna semplificare, ma qui il problema è un altro: le voci si sovrappongono, ci si scambia accuse, si sparano numeri delle “fonti” più disparate. Un sondaggio dice questo, una ricerca dice quello. Si citano dichiarazioni di altri senza contestualizzarle.
I veri esperti (non sempre avvezzi ai tempi e alle tecniche della tv) si ritrovano nei programmi a discutere con personaggi che forse fanno cassetta, ma si rivelano assolutamente incompetenti e superficiali, in un contesto dove il conduttore o la conduttrice sono chiaramente più interessati più ad alimentare la curva degli ascolti che a fornire agli spettatori un quadro dei fatti.
Sul web, intanto, si moltiplicano le comunità di spostati che autoalimentano tra loro visioni distorte della realtà. Echochamber dove la terra è piatta, l’Olocausto non c’è stato, i marziani sono tra noi e la crema al cioccolato contiene polvere da sparo.
C’è sempre un Napalm 51 (copyright Crozza) protetto dall’anonimato pronto insultare, a fare casino, a diffondere falsità. Consapevole del fatto che più seguito avrà più sarà premiato economicamente dalle piattaforme digitali in cui è presente con il suo profilo.
Nei giornali gli editori hanno smesso di investire sull’aggiornamento e sulla specializzazione delle redazioni. Incapaci di reagire alla sfida posta dal web, di individuare un modello di business che possa ridare valore all’informazione, stanno trasformando le loro testate (anche quelle digitali) in attrattori di pubblico (più che di lettori) per gli inserzionisti (lo stesso funzionamento della tv commerciale). Oggi non si vendono pagine o spot: la partita si gioca sugli eventi, su iniziative pubbliche create ad hoc che in un modo o nell’altro alla fine finiscono per avvalorare la sostenibilità di un’azienda, la bontà di un prodotto o di un servizio, l’opera di un manager. Alternative all’orizzonte non se ne vedono. Perfino le ricerche di mercato – che dovrebbero servire a capire la realtà e le sue linee evolutive – in molti casi sembrano più strumenti che contribuiscono alla rappresentazione di fenomeni coerenti con gli interessi di chi le commissiona. Del resto solo pochi addetti ai lavori oggi vanno a vedere se un campione d’indagine è rappresentativo e scientificamente solido. O se gli intervistati sono stati correttamente informati sulle finalità di un’indagine e sul suo utilizzo.
Siamo alle prese con una crisi del contenuto informativo cui può provare a porre riparo solo il buon giornalismo, fatto da professionisti capaci di documentarsi in modo solido, di coltivare il dubbio, di approcciare fonti credibili. Ma forse scrivo queste cose perché sono un nostalgico, convinto che i Terzani, i Montanelli e i Bocca non avrebbero avuto nulla da temere da quella intelligenza artificiale cui i moderni editori, purtroppo, sembrano guardare con crescente e preoccupante interesse.
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