La vera povertà è quella di chi non sa amare: in "Silenzio ragazzi, passa il treno" Silvio Cattarina spiega come la gioia diventa compagna di vita

Peri tipi di Itaca è stato pubblicato il nuovo libro di Silvio Cattarina, “Silenzio, ragazzi, passa il treno. Gioia compagna di vita”. Ne riportiamo un estratto.

Chi tiene le sorti del mondo e della storia conosce e ama la condizione di limite, di fragilità e sofferenza che attraversa gli esseri umani e sa bene quando e come intervenire per porre fine al grido di attesa, di salvezza.



Ai genitori, agli insegnanti, agli educatori, agli amici non spetta tanto il compito di capire e di spiegare ai ragazzi l’enorme male che si diffonde sulla terra. Spetta piuttosto, davanti ad esso, il dovere di esprimere lo sgomento, il dolore, il contraccolpo, la domanda, la disapprovazione, la ribellione, la struggente invocazione che abbia a terminare. “Perché ancora tanta malvagità? Quei poveri morti, quelle povere mamme, quei poveri bambini… Che strazio, che disperazione! Chi aiuterà quei poveretti ora che non hanno più niente?”.



Ecco, già saper dire, saper esprimere questi sentimenti, questi giudizi davanti ai figli, agli studenti, non è poco. Indica, prima di tutto, una mossa del cuore, una mossa dello sguardo, l’apertura a una commozione. E poi spetta agli adulti invitare i giovani a porsi, chiamarli in prima persona ad affrontare il male, a combatterlo.

È un passaggio che ho intuito, per la prima volta, in un incontro con gli insegnanti e i genitori della Scuola Mandelli di Milano. Domanda di una mamma: “Come posso spiegare a mio figlio il male che c’è nel mondo, come glielo motivo?”. Di schianto le ho risposto: “Non lo so, non saprei cosa dire, forse perché è inutile chiederselo… Invece fermerei mio figlio, lo afferrerei a un braccio e gli direi: ‘Ho visto che sei rimasto colpito mentre guardavi tutto quel male… io invece guardavo te e parlavo a Dio, gli chiedevo: Chiama mio figlio, manda mio figlio per combattere tutto questo male… Certo, lo chiedo per me che sono la tua mamma, ma lo chiedo anche per te’. Questa è l’unica interessante, feconda, spiegazione del male”.



Poi ho raccontato di mamma Angelina, la madre di don Giussani. Cento anni fa, a Desio, al mattino presto, quando ancora non riusciva a spuntare l’alba, tenendo per mano Gigetto (al tempo in casa lo chiamavano così), esclamava: “Com’è bello il mondo e come è grande Dio!”. Per tutta la vita Giussani ha ricordato questo episodio e come l’abbia accompagnato e lanciato in tutto il mondo.

Certamente, noi veniamo colpiti da questo straordinario episodio, dalla bellezza della frase, ma io ho pensato anche alla mamma e ho aggiunto: “Vuoi che la mamma del Giuss, in cuor suo, dopo aver gridato commossa quella benedetta e fatidica frase al suo Gigetto, non abbia anche detto: ‘Gesù mio, Dio mio, chiama mio figlio, manda mio figlio; se devi scegliere uno, scegli lui’?”.

Subito dopo ho narrato brevemente di Giovanna d’Arco, come Péguy ce l’ha descritta. Anche lei, vedendo che tutto in Francia era morte e rovina, che non c’erano più né Papa né Re, ha gridato: “Ecco, chiama me, manda me!”. E i genitori di Giovanna d’Arco? Vuoi che non siano intervenuti, che non abbiano elevato al cielo il grido: “Chiama nostra figlia, manda lei, se una deve essere, che sia lei!”.

Il punto è sempre l’amore. Ai ragazzi delle mie Comunità quante volte ho detto: “Non servono dei violenti, degli aggressivi, dei giovani cattivi: ce ne sono già abbastanza. Servono ragazzi dal cuore grande, che vogliano sapere e capire, che desiderino voler bene a tutti e a tutto, che ambiscano aiutare, soccorrere chi è più bisognoso, che amino il Paese in cui vivono, la sua storia, la sua lingua, che imparino e seguano le persone più umane, più appassionate alla vita. Così voi ragazzi potrete gustare tanto della bellezza della vita e potrete ammirare, riconoscere, essere enormemente grati a Dio, perché capirete e sentirete che Lui stesso è grato a voi, è pieno di ammirazione per voi”.

Quanto è importante e decisivo che ogni ragazzo di questo mondo possa rendersi conto che la più grave e tremenda povertà – spero ormai che almeno gli adulti lo sappiano, lo vedano bene nelle nostre società – non è quella economica, occupazionale, sanitaria…, ma è quella umana. Quella di non saper amare.

Quanto è decisivo che i ragazzi possano e sappiano essere amici, essere attenti ad ogni cosa e a tutte insieme, che abbiano come primo interesse che nessun ragazzo abbia mai a perdersi, a rimanere indietro, che siano sinceramente interessati al vero destino di ogni persona. Ragazzi innamorati che brucino, che ardano di commozione perché l’altro sia, e sia alla grande. Interessati a essere un grande bene, a essere portatori verso tutti di un grande bene. A dare, a offrire questo bene che sono e che portano. Di cui sono portatori. Da cui sono portati.

I ragazzi sono così, possono essere così, se sono amati, se si sentono amati. Questa è la prima e più importante condizione: sentirsi amati. Da sempre e per sempre.

“Che bello qui a L’Imprevisto, che esperienza grande abbiamo vissuto con voi!”. Quando i ragazzi affermano questo, io tutte le volte sottolineo: “No, non dovete dire solo questo, non basta. Il vostro cammino, il vostro recupero sarà completo quando arriverete a dire, ad affermare con forza e convinzione, che per le vostre persone da sempre è stato bello, che avete capito che la vita sempre è stata buona, che tutto è stato bene anche quando crollava, anche quando tutto intorno a voi era contro di voi, anche quando il papà combinava le cose brutte, quando la mamma non c’era mai… Se non arrivate ad affermare questo, fino al punto estremo e ultimo, non serve neanche dire che qui a L’Imprevisto è stato bello. Perché voi siete sempre stati amati, la vostra persona è sempre stata voluta, attesa da secoli eterni, e sarà voluta e amata per sempre. Se capite questo, siete già a metà del cammino; come suol dirsi, siete a cavallo”.

Questa è la gioia, questa è gioia: un di più di umanità che vuole solo esplodere.

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