Oltre 3.500 bambini hanno perso la madre per femminicidio. Vittime invisibili, ora cercano giustizia e sostegno psicologico.
Vittime di femminicidio non sono solo le donne: in Italia, più di 3.500 minorenni affrontano il dramma della perdita della madre per mano del padre.
Il dato è stato segnalato dalla presidente dell’Osservatorio nazionale indipendente sugli orfani di femminicidio, Stefania Bartoccetti, davanti alla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio.
Grazie a un’indagine giornalistica condotta negli ultimi anni, è stato possibile, infatti, ricostruire il numero degli “orfani speciali” che, fino ad oggi, in mancanza di un albo che ne registrasse l’esistenza, sono rimasti invisibili.
Ora, usciti dall’ombra, secondo le prospettive delineate, questi bambini, sfuggiti all’attenzione in mancanza di una quantificazione del fenomeno, potranno ricevere la dovuta attenzione e l’aiuto psicologico necessario ad affrontare i traumi subiti e il profondo dolore per le tragedie vissute sulla propria pelle.
Premesso che è da considerare comunque interessante il fatto stesso di provocare attenzione e senso di responsabilità nell’affronto di drammi sepolti nell’indifferenza, tuttavia, proprio considerando le innumerevoli situazioni di cui oggi i bambini sono vittime, in un mondo di adulti incapaci persino di “vederli”, soprattutto di considerarli per il loro valore, vien da chiedersi se è sufficiente, una volta quantificato il fenomeno con tanto di dati raccolti in un albo, mettere in campo schiere di psicologi, assistenti sociali e avvocati per giungere a un buon esito, a quella reale possibilità di cura e guarigione delle profonde ferite inferte ai bambini che ne portano i segni, non sempre visibili a occhio nudo e non sempre espressi.
Oggi sono, purtroppo, tante le situazioni in cui i bambini vengono misconosciuti, abusati, contesi dai genitori, costretti a subire abbandoni, solitudini, emarginazioni sociali. Occorrerebbe andare alla radice di questo misconoscimento dei bambini che spesso non sono considerati “figli”, guardati nella loro alterità, ma trattati dagli adulti come una loro appendice, un oggetto che può essere calpestato e violato senza quasi averne coscienza.
Oggi sembrerebbe decisivo valutare quanto l’humus culturale in cui siamo tutti immersi favorisca un egocentrismo che nega e distrugge le relazioni umane, anche quelle fondamentali che sono all’origine di qualsiasi convivenza umana. Gli stessi femminicidi, sempre più frequenti, sono, in tanti casi, l’esito di un esasperato individualismo, di un narcisismo accecante che impedisce di andare oltre il proprio desiderio di possesso, assolutizzato fino alla negazione dell’altro.
E, d’altra parte, questa società, da tempo definita liquida proprio per l’assenza di relazioni essenziali al vivere, da coltivare e custodire proprio in quanto significative e costruttive, sembra ostinatamente preclusa a una visione alternativa e disposta a interrogarsi, quindi, sui possibili antidoti in grado di contrastare questa sorta di patologia diffusa e sempre più inquinante.
Del resto, pur nella loro tragicità, situazioni estreme che oggi appaiono sempre più drammatiche e allarmanti, di fatto rappresentano solo una punta d’iceberg di un disagio certamente meno inquietante, anche se diffuso e pervasivo.
La società attuale, tuttavia, magari proprio quella che i media spesso ignorano, è ricca di segnali in controtendenza: esistono ambiti che documentano una forte alleanza fra famiglie e fra generazioni che esprimono una solidarietà nella cura reciproca e una possibilità di accoglienza che non teme la fatica, la dedizione anche di fronte a conflitti e dolorose delusioni.
Non mancano, quindi, le risorse alle quali attingere per risanare le lacerazioni, a volte apparentemente inguaribili, di contesti nei quali la vitalità e la libertà dell’essere umano possono essere risvegliate e riscoprire la vera consistenza della vita. E così riprendere il cammino con nuova fiducia.