Quando, qualche mese fa, il ministro Profumo ha annunciato che al liceo classico la seconda prova scritta sarebbe stata la traduzione dal latino (per altro secondo le aspettative di tutti), molti tra gli studenti hanno deciso (li abbiamo sentiti anche durante estemporanee interviste televisive) che da quel giorno in avanti, tutti i giorni, avrebbero tradotto qualche passo dal latino, per arrivare preparati alla prova. Credo che nessuno abbia mantenuto fede a questi pur lodevoli propositi, travolto da interrogazioni, tesine (come popolarmente vengono chiamati i lavori interdisciplinari con cui lo studente apre il colloquio delle prova orale), simulazioni di prove, recupero di voti in bilico – perché senza la sufficienza in tute le materie non si è ammessi all’esame – e quant’altro. Così, a pochissimo tempo dall’inizio delle prove, spesso si può solo constatare che da settimane non si traduce più autonomamente una riga, ci si è dedicati al massimo a ripetere i testi d’autore di cui si ha la traduzione già fatta.
Che fare? Certamente i consigli dell’ultima ora possono avere una qualche utilità solo se sono pro memoria di atteggiamenti già in qualche modo familiari. In ogni caso val la pena impegnarsi al massimo, ma con realismo: sebbene un esame sia sempre un’incognita, è ragionevole pensare che uno studente che abbia di solito dato buona prova anche questa volta possa egregiamente cavarsela; e che, viceversa, chi ha sempre fatto fatica non possa sperare con eccessiva convinzione in una prestazione eccellente.
Il primo consiglio, per chi percepisce ancora la morfologia come una selva oscura dantesca, in cui per esempio congiuntivi presenti e indicativi futuri sovrapponendosi diventano ostacolo al cammino, è di ripassare umilmente le desinenze nominali e verbali: se fatto con sistema questo lavoro non richiede più di qualche ora.
Se invece, come per lo più accade, la morfologia e la sintassi regolare non sono tali da far tremar le vene e i polsi, potrebbe essere utile una ripassata degli autori di prosa della letteratura, almeno dei principali “candidati” (il toto-versione quest’anno spazia da Cicerone a Tertulliano fino ad Ammiano Marcellino). Infatti la conoscenza, non solo dal punto di vista linguistico, dell’autore del passo è di aiuto: saperlo collocare in un ambito, storico, o di pensiero, o culturale, permette a volte di superare possibili fraintendimenti nel significato.
Rispetto alle versioni tradizionali che per cinque anni hanno accompagnato lo studente con scadenza a volte anche mensile, qui, a fronte di un testo in genere leggermente più lungo di quelli accostati durante l’anno (in due ore) e a volte anche meno complesso, c’è il vantaggio del tempo: quattro ore possono essere messe a frutto.
Il primo passo è certamente la lettura fatta dall’insegnante ma anche subito dopo fatta dallo studente stesso, che deve ascoltare quello che legge.
Di solito il passo proposto, come ho già detto, è di poco più lungo di quelli che gli studenti hanno tradotto durante l’anno, e non necessariamente è altrettanto o più difficile. È possibile dunque dedicare, senza perdere tempo, una prima mezz’ora (o anche più: in genere gli studenti tendono a sorvolare su questo primo momento traduttivo, mentre è dalla leggerezza con cui si esegue questa fase che scaturisce la stragrande maggioranza degli errori) alla lettura attenta e analitica del testo: segnare i verbi, i connettivi, ricostruire la struttura sintattica. Prima della traduzione vera e propria è opportuno porre attenzione ai tempi e ai modi dei verbi: all’esame di Stato 2009 un testo di Cicerone (per altro di non eccessiva difficoltà), per esempio, conteneva un congiuntivo imperfetto in una subordinata dipendente da tempi principali e non storici (quindi “contro” le regole consuete della consecutio temporum che dalla quarta ginnasio gli studenti si sentono ripetere): non tutti i candidati se ne sono accorti (ma se ne sono accorti i professori in sede di correzione…), perché il passo “filava” anche senza dare quella sfumatura di irrealtà che quel congiuntivo richiedeva.
Questa “prima fase” è dunque fondamentale: si tratta di un lavoro di analisi e sintesi, perché non è possibile interpretare una singola proposizione se non all’interno dell’intero passo: in questo senso tutta l’abilità consiste nel saper considerare analiticamente le singole parole e nello stesso tempo saperle vedere sinteticamente nel contesto.
Anche se lo studente in genere non ci pensa, c’è un grande punto di forza: il brano c’è, è già scritto e ha un significato del tutto comprensibile, visto che altri, prima di noi, lo hanno compreso perfettamente. Perciò non è necessario capire tutto subito, il significato non si eclisserà: è più importante avere elasticità e onestà per riconoscere che la propria ipotesi, se non porta a un significato plausibile, non tiene. E qui aggiungerei un nota bene: meglio diffidare di un’analisi all’apparenza perfetta ma che non prende in considerazione tutte le parole: spesso per far “tornare i conti” lo studente elimina qualche parola; ma, come si sa, in qualsiasi campo non è mai un buon metodo quello che deve eliminare qualche cosa del reale. In tal caso occorre con pazienza ripercorrere i passi e tentare altre ipotesi interpretative sul piano sintattico (non si sa mai che si sia scambiato per imperativo un infinito passivo o un sostantivo neutro plurale, come è accaduto durante la prova del 2007).
Grazie al lessico, anche minimo, acquisito nel corso del quinquennio, normalmente il senso globale si comprende prima di aver aperto il vocabolario: il vocabolario è uno strumento utile per confermare (o per contestare) quello che si è già compreso. In altre parole non si dà traduzione senza una previa comprensione; qui si capisce l’utilità del conoscere l’autore, il periodo storico e il clima culturale in cui è vissuto.
Altro nota bene: la caccia alle “frasi fatte” sul vocabolario non è sempre utile, potrebbe anche depistare: prima di utilizzarle è opportuno controllare da quale autore sono estrapolate e soprattutto non vanno mai utilizzate se non se ne capisce la logica.
Per quanto il tempo concesso sia abbondante, un’occhiata all’orologio aiuta a non dilungarsi inutilmente su singoli aspetti, magari marginali: almeno tre quarti d’ora, ma possibilmente un’ora intera, vanno dedicati alla stesura in bella (che non è mero esercizio di copia calligrafica – anche se una grafia leggibile spesso è determinante durante la correzione −, ma il momento in cui si cerca di rendere nel modo più chiaro ed elegante il significato preciso del passo), con tutte le rifiniture del caso.
Terzo nota bene: non bisogna mai proporre traduzioni alternative tra parentesi, perché non al professore ma allo studente compete la scelta della traduzione adeguata. Se riteniamo di aver proposto una traduzione eccessivamente libera, o tale che possa affiorare il sospetto che si tratti di una scorciatoia perché non abbiamo capito a fondo, è meglio utilizzare delle note a margine o in fondo al testo, evitando però di scrivere espressioni tipo: “ho riconosciuto il congiuntivo”, oppure “nel testo è al plurale”: scriviamo invece (nella nota) una traduzione molto letterale.
Un ultimo, forse impopolare, consiglio: non cercare di copiare, almeno per due ragioni. Innanzi tutto non è detto che il vicino sia più competente, ma, ancor più, c’è il rischio di perdere troppo tempo nel cercare di comunicare salvando le apparenze e nel cercare di capire quello che si è captato: tutto tempo che, se utilizzato per concentrarsi sul testo, potrebbe portare a risultati più originali e precisi.