EMISSIONI CO2/ Così la mano pubblica “guasta” i permessi del Protocollo di Kyoto

- Federico Boffa

I meccanismi cap and trade per ridurre le emissioni di CO2 sembrano avere un limite dovuto al comportamento delle imprese elettriche pubbliche

inquinamento causa infertilità Image by sm-ekb2005 from Pixabay

La riduzione delle emissioni è uno degli obiettivi fondamentali dell’agenda politica globale. L’ampiezza dei benefici, sia di salute che economici, che da essa derivano non dovrebbe farci perdere di vista l’importanza di raggiungere l’obiettivo in modo efficiente, cioè al minimo costo complessivo per il sistema.

Come sempre accade in politica economica, è determinante non solo il dove si vuole arrivare, ma anche il come ci si arriva. Misure efficienti possono permettere non soltanto un risparmio per la collettività, che naturalmente va a beneficio della crescita, ma anche rendere più accettabile agli occhi dell’opinione pubblica l’operazione della cosiddetta transizione energetica nel suo complesso. Almeno per quanto riguarda i sistemi democratici, è dunque in gioco il raggiungimento stesso degli obiettivi.

Per limitare le emissioni di anidride carbonica, il Protocollo di Kyoto prevede sistemi di mercato, i cosiddetti cap and trade o emission trading systems (ETS) già descritti da Patrizia Feletig su queste pagine. Il più grande di questi meccanismi di cap and trade è quello europeo, il cosiddetto EU-ETS, in cui anche l’Italia è naturalmente coinvolta.

Il meccanismo del cap and trade è teoricamente brillante. I Governi stabiliscono la massima quantità ammissibile di emissioni di CO2 e distribuiscono, in parte mediante l’utilizzo di aste e in parte mediante l’assegnazione sulla base dei dati storici di emissione, corrispondenti permessi a emettere. Questi permessi possono poi essere scambiati: le imprese che ne hanno in eccesso rispetto alle loro emissioni possono vendere i permessi alle imprese che invece ne hanno di meno… (al netto della finanziarizzazione del mercato, ben descritta da Patrizia Feletig). Si forma così un prezzo, che dipende dalla scarsità dei permessi rispetto alla domanda, e che rappresenta il cosiddetto carbon pricing, ovvero una sorta di tassa sulle emissioni dal prezzo variabile, il cui ammontare non è però direttamente deciso dal Governo, ma è invece determinato dall’intersezione fra domanda e offerta. Insomma, la quantità di emissioni è fissata dal Governo, garantendo in teoria (a condizione che il sistema sia effettivamente globale, e non determini un trasferimento geografico dell’inquinamento) l’efficacia nel raggiungere l’obiettivo. Il prezzo del sistema è invece determinato da un mercato artificiale di scambio dei permessi a inquinare. Per questo il cap and trade rientra fra i cosiddetti meccanismi di mercato. 

Il cap and trade, e, più in generale, i meccanismi di mercato sono apprezzati dagli economisti, in quanto essi, in teoria, dovrebbero far sì che l’abbattimento delle emissioni sia concentrato fra quelle imprese che lo possono fare a un costo relativamente basso (ad esempio, tramite l’uso di carburanti meno emissivi o mediante l’installazione di tecnologie in grado di ridurre le emissioni) e che quindi preferiscono non dover comprare i permessi. Secondo questo ragionamento, le imprese che al contrario devono sostenere un costo alto per abbattere le emissioni – magari perché utilizzano processi produttivi in cui ridurre le emissioni è più costoso, o magari perché i loro impianti consentono minore flessibilità nell’utilizzo di carburante – preferiscono acquistare i permessi. Sempre sulla base del ragionamento, la concentrazione della riduzione delle emissioni fra le imprese con costo di abbattimento inferiore darebbe vantaggi di efficienza al meccanismo di mercato, rispetto a una regolazione command-and-control, in cui gli Stati impongono a tutte le imprese degli standard emissivi o tecnologici. 

A ben vedere, tuttavia, i benefici di efficienza del carbon pricing sopra illustrati richiedono che le imprese sottoposte alla regolazione reagiscano ai cambiamenti di prezzo dell’anidride carbonica decidendo, sulla base di questi, se acquistare o vendere permessi e quanto emettere. Questo comportamento è quello tipico di un’impresa che massimizza il profitto e, come tale, è generalmente dato per scontato. In realtà, se guardiamo ai grandi emettitori di CO2, non è affatto detto che tale ipotesi sia verificata. 

Il settore che più contribuisce alle emissioni a livello mondiale è quello elettrico, che da solo conta per circa il 40% delle emissioni da combustione, e per circa il 60% delle emissioni verificate all’interno dell’EU-ETS. Nel settore elettrico, le sette maggiori società al mondo per capacità installata sono controllate dai Governi nazionali. In Europa, la situazione non è molto diversa: in 18 dei 30 Paesi che sono parte del sistema EU-ETS il Governo nazionale detiene una quota di controllo nella maggiore società di generazione elettrica del Paese; in molti degli altri, il controllo è in mano a un Paese estero, ma pur sempre di impresa pubblica si tratta. Insomma, il controllo pubblico dei generatori elettrici è la regola, con alcune notevoli eccezioni, fra cui, in particolare, gli Stati Uniti e la Germania.

Ha senso ipotizzare che le imprese in questo settore massimizzino il profitto? La risposta è no, come emerge da un recente articolo [1] in cui effettuiamo un’analisi empirica del comportamento delle imprese elettriche pubbliche. Le imprese pubbliche sembrano effettivamente rispondere a logiche politiche, diverse dunque da quella della massimizzazione del profitto, e orientate piuttosto alla riduzione della volatilità dei prezzi. Da tale risultato, è possibile dedurre che i meccanismi di cap and trade previsti dal Protocollo di Kyoto e pensati per un mondo di imprese private soggette ai meccanismi di mercato non funzionano, o quanto meno non rappresentano soluzioni efficienti nelle attuali circostanze di forte coinvolgimento della mano pubblica nelle imprese. Meglio adottare standard emissivi e tecnologici tipici dei sistemi command-and-control, che con il loro impianto dirigista sono forse più adatti a questa situazione. 

Il ragionamento vale anche per la Cina, che prevede di implementare nel 2021 il più grande sistema di ETS del mondo, destinato a superare abbondantemente per quantità di anidride carbonica soggetta a regolazione quello europeo. In un’economia completamente centralizzata, con le quattro società di generazione elettrica completamente controllate dallo Stato, il cap and trade non sembra proprio essere il meccanismo più indicato.

[1] Baranek, Bruno, Federico Boffa and Jakub Kastl. 2021. “Revisiting Cap-and-Trade in Presence of Publicly Owned Polluters: The Case of Italy 2006-2018”, CEPR DP 15989.

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