Israele intende costruire un campo di internamento in cui rinchiudere la popolazione civile di Gaza in attesa di espellerla. Intanto la “guerra” procede
La tregua non arriva, ma le stragi continuano. Per colpire un terrorista di Hamas, che probabilmente aveva partecipato all’attacco del 7 Ottobre (e che, come spessissimo accade, si mimetizzava tra i civili), le forze armate israeliane (IDF) l’altro giorno hanno ucciso almeno 15 persone (dieci erano bambini) che aspettavano di ricevere prime cure davanti ad un presidio medico a Deir al-Balah, nel centro della Striscia.
L’ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha reso noto che almeno 798 palestinesi sono stati uccisi nei punti di soccorso gestiti dalla Gaza Humanitarian Foundation e vicino a convogli umanitari gestiti da altri gruppi di soccorso nelle ultime sei settimane.
La guerra di Netanyahu non si ferma, con l’evidente appoggio degli Stati Uniti. Dopo quattro giorni di colloqui a Washington, il risultato non è stato uno stop ai bombardamenti, ma la surreale candidatura avanzata dal premier israeliano per assegnare a Trump il Nobel per la pace.
In cambio, gli Stati Uniti hanno consegnato al governo israeliano bulldozer ed escavatori per realizzare la cosiddetta “città umanitaria” a Rafah, già annunciata dal ministro della Difesa Israel Katz: si tratta di un enorme campo di internamento in cui sarà rinchiusa la popolazione civile di Gaza, in preparazione del trasferimento fuori dall’enclave.
Già fatti i conti del “pacchetto di trasferimento” che verrebbe concesso a ciascun palestinese che abbandonasse Gaza: 9mila dollari. Calcolando un esodo per almeno 500mila persone, si tratterebbe di circa 5 miliardi di dollari. Il progetto sta incassando durissime critiche anche in patria: sedici esperti israeliani di diritto internazionale hanno avvertito in una lettera pubblica che i piani presentati dal ministro della difesa israeliano per concentrare la popolazione di Gaza in una “città umanitaria” costituiscono un ordine manifestamente illegale e un crimine di guerra.
“Netanyahu vuole una soluzione per Gaza che sia accettabile per la sua base ultraortodossa e impedisca il collasso della coalizione – sostiene Yossi Verter su Haaretz –. Gaza è una storia diversa dagli altri fronti in questa guerra senza fine. È un obiettivo emotivo, i cui vari aspetti dividono il pubblico israeliano. Da un lato, l’emozione dominante è ancora la vendetta su Hamas, su ogni Gazan ovunque si trovi, e la vendetta di Gush Katif, 20 anni dopo il disimpegno (Gush era un blocco di 17 insediamenti israeliani nel sud della striscia di Gaza: nel 2005 gli 8mila residenti furono obbligati a lasciare l’area e le loro abitazioni vennero demolite, secondo il piano di disimpegno unilaterale israeliano, ndr). D’altra parte, salvare gli ostaggi è la preoccupazione principale, così come preservare i resti della moralità che abbiamo ancora”.
La realtà è proprio che questa guerra sembra davvero senza fine. Se quella che si stimava essere la maggiore forza filoiraniana ed estremista islamica dell’intero quadrante, Hezbollah in Libano, risulta oggi essere notevolmente ridimensionata e costretta ad uno stallo dovuto alla sterilità della pipeline con l’Iran e la Siria; e se quel che resta di Hamas a Gaza sembra aver consumato buona parte del proprio arsenale, per non dire dei suoi miliziani, dimostrano invece ancora vitalità e dotazioni gli Houti nello Yemen, che controllano buona parte dell’intero Paese, compresa la capitale, ma che ancora vengono definiti “ribelli”, in un’accezione forse sminuente della loro postura.
Una resilienza che si basa sulla miseria del territorio e sul loro welfare militar-teologico che sembra essere l’unica possibilità di sopravvivenza per la popolazione.
Gli Houthi, dopo una breve parvenza di tregua siglata con Trump, hanno ripreso le ostilità contro Israele e il traffico marittimo del Mar Rosso e del Golfo di Aden. Tre giorni fa, granate a propulsione a razzo lanciate dallo Yemen hanno colpito e affondato un mercantile, l’Eternity C, che batteva bandiera liberiana ed era gestito da un armatore greco. Molti marinai non sono sopravvissuti, altri sono stati rapiti dagli yemeniti e portati non si sa dove, altri ancora sono stati salvati dalle navi della missione Eunavfor Aspides.
Una missione a carattere difensivo, che conta attualmente su tre navi, tra cui il cacciatorpediniere lanciamissili “Andrea Doria”, una unità della Marina militare italiana, appartenente alla classe Orizzonte, un vero “incrociatore antiaereo”. Aspides oggi è forse il fianco europeo più esposto alle guerriglie dei ribelli, debole per un dislocamento esiguo di mezzi e limitato per regole d’ingaggio forse troppo prudenti.
Di fatto, gli organismi internazionali ancora una volta si rivelano impotenti. Illuminante il pensiero di Luiz Inácio Lula da Silva, presidente del Brasile, riportato recentemente in un intervento sul Corriere della Sera: “Dopo l’invasione dell’Iraq e dell’Afghanistan, l’intervento in Libia e la guerra in Ucraina, alcuni membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu hanno banalizzato l’uso illegale della forza. Tacere di fronte al genocidio a Gaza vuol dire negare i valori più elementari dell’umanità. L’incapacità di superare le differenze sta alimentando una nuova escalation di violenza in Medio Oriente”.
E ancora: “Non esistono muri abbastanza alti per mantenere isole di pace e prosperità circondate da violenza e miseria. (…) Se le organizzazioni internazionali sembrano inefficaci, è perché la loro struttura non riflette la realtà odierna. Le azioni unilaterali ed escludenti sono aggravate dal vuoto di leadership collettiva. La soluzione alla crisi del multilateralismo non è abbandonarlo, ma rifondarlo su basi più eque e inclusive”.
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