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Home » Cultura » Arte » GIANNI BERENGO GARDIN/ Le ali e il “mestiere” di un artigiano dello sguardo

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GIANNI BERENGO GARDIN/ Le ali e il “mestiere” di un artigiano dello sguardo

Carlo Dignola
Pubblicato 8 Agosto 2025
Gianni Berengo Gardin (1930-2025) (Ansa)

Gianni Berengo Gardin (1930-2025) (Ansa)

È scomparso ieri Gianni Bernego Gardin (1930-2025), tra i maggiori fotografi del secondo novecento. Uno straordinario “ladro di inquadrature”

Roberto Koch, direttore dell’agenzia Contrasto, lo ha definito “il più grande autore italiano”. Cesare Zavattini, già cinquant’anni fa diceva di lui: “Questo quasi distratto personaggio ha sempre nascosto tra le ali le trombe di un suo proprio Giudizio universale, forse lontanamente un po’ dolente, ma sempre immediatamente morale”.


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Lo conosceva bene. Le “ali” di Gianni Berengo Gardin sono i modi eleganti e schietti con cui ha saputo trattare per settant’anni (è morto ieri a Genova a 94) tutti gli uomini che incontrava, la sua antica signorilità ligure e veneziana, la pressione lieve che esercitava con il suo dito sull’otturatore.

Le trombe in cui ha suonato a pieni polmoni il suo “confutatis maledictis” sono state la Rolleiflex prima, poi la maneggevole Leica, armata soprattutto con il grandangolo 28, quindi la Nikon e i suoi tele attraverso le quali ci ha aiutato a capire meglio il nostro tempo, i suoi drammi, i suoi momenti di gioia, i suoi incanti.


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Era un timido combattente, Gianni. Un fotografo militante. Non poteva soffrire lo scempio di Venezia che le grandi navi da crociera hanno fatto negli ultimi decenni, sbarcando denari, turisti, bezos e spazzatura. Con il supporto del Fai aveva esposto le sue foto-denuncia a Milano nel 2014 e l’anno dopo proprio nella sua Venezia.

“Sua”, anche se era nato a Santa Margherita Ligure, e viveva da molto tempo a Milano: gli era rimasta dentro quell’aria da viaggiatore dal lungo passo, da attraversatore di confini, mai spettacolare, sempre puntuale.

Le sue prime foto erano apparse nel 1954 sull’ormai mitico settimanale Il Mondo diretto da Mario Pannunzio, culla dell’intelligenza laica del nostro Paese. Dal 1966 ha lavorato per il Touring Club Italiano e per l’Istituto Geografico De Agostini, esplorando un’Italia ancora in gran parte da scoprire; ha realizzato monografie aziendali per le maggiori industrie italiane (Olivetti, Alfa Romeo, Fiat, Italsider); ma soprattutto ha lavorato per le grandi riviste internazionali – Time, Stern, Epoca, Domus, Le Figaro – quando la stampa ancora faceva opinione e cultura.


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Ha pubblicato oltre 260 volumi fotografici e ha esposto i suoi lavori in più di 360 mostre personali in Italia e all’estero. Tra le più recenti, ricordiamo nel 2016 Vera fotografia. Reportage, immagini, incontri al PalaExpo di Roma, e nel 2022 ancora nella capitale il Maxxi gli ha dedicato la retrospettiva L’occhio come mestiere.

Ma soprattutto resta nella memoria Cose mai viste. Fotografie inedite, organizzata da Renato Corsini e dai figli di Berengo a Brescia nel 2023: frugando nell’immenso archivio, loro e lui erano riusciti ancora a stupire proponendo tanti scatti a suo tempo scartati.

Tra i premi che Berengo Gardin ha ricevuto, nel 1990 il Brassaï a Parigi; nel ’95 il Leica Oskar Barnack ai Rencontres di Arles; nel 2014 il Kapuściński per il reportage. Sue immagini sono conservate al Moma di New York, alla Bibliothèque Nationale di Parigi, al Centro de Arte Reina Sofía di Madrid.

Non usava mai il flash, né il cavalletto. Non tagliava le inquadrature in fase di stampa, e quando poteva preferiva ancora l’occhio all’esposimetro. È stato un fotografo d’altri tempi insomma, che apparteneva alla stirpe dei grandi “ladri di inquadrature” e dei curiosi, alla Cartier-Bresson per intenderci. Era considerato, in effetti, l’“HCB” italiano, ma una certa vena ironica lo avvicinava forse di più a un altro grande autore francese: Robert Doisneau.

Berengo ha fotografato praticamente sempre in bianco e nero, una tecnica che non aveva mollato neppure negli ultimi anni, quando, con un po’ di imbarazzo, ogni tanto aveva preso in mano qualche fotocamera con la scheda al posto della pellicola: “Non sono contrario al digitale – diceva –, ma nel 99 per cento dei casi uso ancora le vecchie fotocamere. Lo confesso, amo ancora molto quel meraviglioso oggetto che è il negativo. Non posso soffrire i pixel. Oggi fotografiamo con i numeri. Fotografiamo numeri”.

Il bianco e nero era una questione affettiva per lui, non “estetica” né tantomeno tecnica: “Dipende da cosa uno ama. Vede, se un uomo è davvero innamorato di una donna, anche se ne conosce una più bella, più intelligente, più tutto, resta legato a lei. Io sono innamorato della macchina fotografica meccanica. Capisco benissimo che il digitale sia il mezzo del domani. Sono invece un nemico di chi tarocca le fotografie, ne fa delle immagini artificiali e non ha il coraggio di dichiararlo”.

Odiava Photoshop: pretendeva che chiunque mettesse mano a una fotografia in post-produzione (ovvero: tutti) lo scrivesse con un bel timbro sul retro della stampa, o apponesse un ben visibile “tag”: “Io addirittura programmi del genere li proibirei per legge a chi fa questo mestiere. Ormai la maggior parte delle immagini che vediamo non sono più fotografie. Guardi le pubblicità: sia gli uomini sia le donne non hanno più le rughe, sono sparite. Così però si travisa quello che è sempre stato lo scopo e il motivo del fotografare: far vedere agli altri ciò che non hanno la possibilità di percepire in prima persona”.

Le sue immagini erano geometriche e delicate, a volte commoventi, le sue parole invece erano spesso taglienti e sempre chiare. “Oggi l’interesse per le foto di reportage c’è ancora, ma il dramma è che i giornali ormai le pagano niente. E in questo modo scoraggiano i giovani: quelli bravi vanno tutti all’estero. Ma è un controsenso perché il pubblico, invece, apprezza: se c’è una mostra di un cosiddetto ‘artista concettuale’ all’inaugurazione in galleria trovi 30 persone, a una mostra di reportage dell’agenzia Magnum ce ne sono 2mila: devono intervenire i vigili per paura che crolli il pavimento”.

L’Università Statale di Milano nel 2009 gli aveva conferito una laurea honoris causa in Storia e critica dell’arte, quarant’anni dopo quella data a Montale. Ne andava fiero. Non pensava, però, che la fotografia fosse un’arte: “Personalmente tengo molto a non passare per artista: sono un fotografo-fotografo, un artigiano che cerca di fare al meglio il proprio mestiere. Ormai i giovani si fanno biglietti da visita su cui scrivono ‘artista fotografo’, e poi non fanno altro che scopiazzare quello che i pittori hanno fatto cinquant’anni prima e meglio di loro. Io ci tengo a passare per un testimone della mia epoca: documento certi fatti. Non sono un ‘creativo’”.

Né gli piaceva essere chiamato “maestro”, come naturalmente oggi stanno titolando tutti: “Di solito è un appellativo che si dà a qualche anziano un po’ rimbambito… Io credo di essere un buon fotografo, ma un maestro proprio no”.

Per Berengo la fotografia era piuttosto “la benzina che mi ha fatto correre per il mondo incontro alla vita”.

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