Quella con Giua è una conoscenza di vecchia data, che non ho timore a chiamare amicizia, lei mi perdonerà. Ho avuto il piacere di conoscerla da ragazza e già dall’inizio della sua esperienza artistica si intravedeva la voce cantautorale di primo piano che le ha permesso una carriera di alto profilo.
Maria Pierantoni Giua, in arte solo Giua, è originaria di Rapallo e legata alla sua terra, già origine e contesto di molti altri artisti. Alla sua terra e al Sudamerica è legata fin dagli inizi, il suo album d’esordio del 2007 ne è esempio. Il lavoro con il maestro Armando Corsi (De André, Fossati) ne affineranno la pratica chitarristica e compositiva e la produzione del medesimo primo album, affidata al compianto Beppe Quirici ne farà un lavoro tanto intenso quanto sottovalutato, per quegli strani meandri in cui talvolta la storia si avvita. In ogni caso la carriera di Giua (che si affianca ad una intensa attività live e all’altro grande amore, la pittura) prosegue brillantemente, portandola due anni dopo alla fase finale di Sanremo; da non dimenticare che poco più che ventenne aveva già trionfato al Premio Lunezia e a Castrocaro. Del 2012 è l’album successivo, in coppia con Armando Corsi, poi E improvvisamente, del 2016 e finalmente arriviamo al presente. O quasi.
Sì, perché il nucleo della formazione con cui Giua lavora alle canzoni di Piovesse sempre così (Neuma / Sugar, Egea Music) è la stessa con cui è stata in giro per tre anni e 150 repliche dello spettacolo Quello che non ho, di Neri Marcorè. Direzione musicale affidata al valente pianista ed arrangiatore Paolo Silvestri e chitarre di Pietro Guarracino e Vieri Sturlini. A loro si affiancano Pietro Martinelli al basso e Rodolfo Cervetto alla batteria, già con Giua in precedenti lavori, a formare un combo assoluto valore e grande affiatamento.
Mi piace riportare qui, prima del commento ai brani dell’album, due chiacchiere fatte al telefono con Giua mentre è in viaggio per concerti fra Ancona e Padova.
Sei in giro per concerti: il gruppo con cui sei è lo stesso dell’album?
Sì, siamo in tour con lo spettacolo “Tra Faber e Gaber”, sempre con Neri Marcorè, ed accanto a questo impegno a breve inizieranno i concerti di promozione del nuovo album in cui mi esibirò ora da sola, voce e chitarra, ora accompagnata solo dai due chitarristi o infine nella formazione full band!
Nell’album convivono due anime, quella più scanzonata, rock’n’roll e a volte feroce nel bastonare alcuni stereotipi, e l’altra più diciamo poetico-esistenziale. Chi vince, se vince qualcuno?
In realtà non vince nessuno, è proprio una commistione di sentire e quindi poi di raccontare, sono sfaccettature che convivono, nella complessità della mia vita come in quella di tutti, credo. A volte vince l’ironia e talvolta il ruggito, mentre altre volte non si può fare altro che soffrire, e la canzone dà modo di raccontare e di conseguenza elaborare quel vissuto. È quindi una convivenza di molteplici aspetti.
In 12 anni dal tuo esordio discografico sono cambiate molte cose, nella vita e nella tua arte. Possiamo dire che sei cresciuta mantenendo la tua identità o sei cambiata in qualche cosa?
Mi piace rispondere con una frase di Picasso, che diceva “Io non mi evolvo, io sono”! Non vuol dire che uno non cambi e non si trasformi. È impossibile non cambiare se non si è morti e menomale che la vita mi tocca in tutti i suoi aspetti, anche dolorosi. Cerco di stare costantemente più possibile presente a me stessa e di conseguenza mi muovo e racconto. Sono successe tantissime cose, il fatto di avere avuto un figlio, per esempio ha cambiato molte cose. Quello che mi interessa davvero è che quello che vivo mi porti sempre più vicino a quello che sono.
Una bella dichiarazione d’intenti quella di Giua, che si percepisce chiaramente nella maturità cui è giunta la sua scrittura. Ed è il momento di passare alle canzoni. Il disco si apre chitarra e voce con Uragano si chiuderà sempre chitarra e voce (per la verità voci fraseggi di violoncello, vedremo poi di chi…) con Senza dire. È come mostrare come nascono le canzoni ed incorniciare con due bozzetti a colori principali la tavolozza variopinta che c’è nel mezzo. Non voglio fare una analisi brano per brano, ma procedere per flash, andando su quello che ha colpito di più me. Perché la caratteristica delle canzoni di così grande intensità, scritte mettendoci tutto se stessi è che possono interrogare e colpire l’ascoltatore in molte maniere diverse, a seconda dei diversi ascolti. O anche dei diversi momenti in cui ci si trova, in cui si può essere accarezzati o schiaffeggiati ora da una frase, ora dall’altra, ora da un’armonia o da una melodia, ora da un’altra.
Così, partendo subito dalla mia preferita, Le luci delle case è un pezzo di altissima poesia, da ascoltare e riascoltare anche qualche volta di fila, ulteriormente impreziosito dalle melodie del violoncello di Jaques Morelenbaum, brasiliano, punto di riferimento imprescindibile della musica carioca, già collaboratore, fra i molti altri di Jobim e Caetano Veloso. Una immagine su tutte: Vedi come sono belle le luci delle case/ Quando la sera si decide a profumare le strade. poi Vedi le parole che non spreco/Quando ti guardo e chiedo un bacio. successiva Aprile senza timore le frequentazioni con il Sudamerica, in questo caso in particolare con il choro . Gli intrecci chitarristici e le preziose sottolineature del pianoforte si mescolano alle melodie del violoncello di Morelenbaum e alla vocalità sofferta e potente, mostrando una maturità armonica e compositiva davvero invidiabili. Arditezze armoniche ancora maggiori in Tutta l’aria che ci vuole, 6, nella quale le tessiture chitarristiche richiamano alla memoria gli incastri dei primi Genesis, quelli veramente progressive. Ah, le liriche: Nell’angolo di un giorno/Le cose che cercavo/Adesso che mi accorgo/Io intanto le trovavo.
Non ho ancora menzionato, e lo faccio in ordine sparso, gli episodi più rock, l’altra faccia della medaglia menzionata sopra: Cosa penserà la gente, attacco a certo bigottismo legato al giudizio sulle persone; Macchina improbabile, sorta di ripresa della storia di Thelma e Louise, amicizia ai limiti; Non abbastanza, verso il funky-rock e soprattutto Feng Shui, , ma divertente presa in giro di certe figure femminili che hanno perso coscienza di sé per diventare luoghi comuni, personaggi impazziti di una realtà estraniante; canzone questa resa ancora più incisiva dalla straordinaria partecipazione, fra cantato e recitato, di Carla Signoris. Sempre di ottima fattura sono Argilla, come altri brani con Zibba Più lontano di così, raffinato disegno di archi. Ma un’ultima menzione va alla delicata poesia – testuale e musicale – di Col naso all’insù, d’amore da ascoltare tutta, pesando le parole, gustando il tentativo di trovare un equilibrio fra sé e l’altro e sfaccettando la storia ognuno sulla propria esperienza, cosa possibile solo con le grandi canzoni.
Che altro aggiungere? Un album da ascoltare, dove con questa parola si intende mettersi di fronte alla musica e alla parola, senza scorciatoie, senza fare altro nel frattempo, lasciandosi percuotere o accarezzare dalle parole e dalla musica e dando il tempo necessario a che ciò avvenga. Come peraltro bisognerebbe ascoltare sempre. Se vi fidate, ne vale la pena.