Il Giubileo dei giovani, per le sue caratteristiche, potrebbe aver deluso molti adulti. Perfino certi vescovi. Si trattava di guardare la Grazia e lasciarla
Il Giubileo, nella tradizione cristiana, è un’interruzione del tempo lineare, una soglia che si apre nel quotidiano per offrire spazio a qualcosa di più profondo. A Roma, con Papa Leone XIV, questo ha preso la forma di un pellegrinaggio giovanile sobrio e silenzioso, privo di enfasi, segnato da parole misurate.
Non un raduno autoreferenziale, non una prova di forza spirituale, ma una chiamata essenziale rivolta a chi ha ancora il coraggio di muoversi.
Le parole del Papa non sono state una sintesi dottrinale, né un manifesto operativo. Hanno avuto la densità di ciò che non cerca effetto. “Nessun surrogato può spegnere la sete di Dio” – ha detto con chiarezza – e ha affidato ai ragazzi una consegna: non diventare influencer religiosi, ma missionari della pace. Non agitare contenuti, ma portare una presenza. Vivere il mondo senza cedere alla sua frammentazione.
Ciò che colpisce in questa esperienza non è stata la straordinarietà dell’evento, ma il fatto che molti giovani abbiano deciso di partire. Di alzarsi, di mettersi in viaggio. In un contesto dove la mobilità spesso coincide con la dispersione, questa scelta ha avuto il volto semplice di chi desidera qualcosa che ancora non possiede. Non un bisogno di intrattenimento, ma un orientamento della libertà. Non la ricerca di una protezione, ma l’istinto a lasciarsi interrogare.
Il primo errore che molti adulti commettono, osservando questi momenti, consiste nel giudicarli con la logica del risultato. Ci si chiede se produrranno cambiamenti, se produrranno tracce. Oppure ci si rifugia nello scetticismo, attribuendo tutto alla suggestione collettiva.
In entrambi i casi, si rifiuta il carattere originario dell’esperienza: la serietà dell’inizio. Eppure, come scriveva Simone Weil, “il bene è fragile come un silenzio; non lo si misura, lo si accoglie”. In questo senso, il nodo non sono i ragazzi. È lo sguardo che li avvolge. La Chiesa, se vuole essere madre, deve imparare a non colonizzare i percorsi interiori. E gli adulti, se vogliono essere padri, devono smettere di inseguire conferme. Un adulto maturo non ha bisogno che l’altro gli somigli. Non cerca di riprodurre sé stesso. Custodisce la distanza, protegge la libertà, accetta che qualcosa nasca in un luogo che non controlla.
Come ha scritto l’autore polacco Marek Bieńczyk, “educare significa accettare che chi ami ti passi davanti e ti dimentichi”. Non è una sconfitta, è la cifra di una presenza che non trattiene.
Nell’epoca della visibilità e della performance, ciò appare incomprensibile. Ma è qui che si misura la qualità dell’amore adulto: nella capacità di restare senza trattenere, di esserci senza invadere.
Papa Leone XIV ha parlato con la gravità di chi conosce questo tempo. Non ha offerto parole consolatorie, né ha cercato consensi. Ha affidato una domanda: cosa cercate davvero? E ha accolto il movimento di chi, anche confusamente, gli ha risposto.
Chi era lì non ha fatto qualcosa “per la Chiesa”. Ha semplicemente portato la propria inquietudine davanti a un Altro. E in questo gesto – spesso non tematizzato – si è compiuto l’essenziale. Chi ha camminato fino a Roma ha affermato, con il corpo, che non tutto è già scritto. Ha mostrato che non si può restare immobili in attesa di chiarezza, perché la verità non si svela a chi non si muove.
Il passo compiuto, anche se incerto, dice che esiste ancora un desiderio vivo, che resiste alla saturazione culturale e al vuoto simbolico. Questo basta a rovesciare ogni diagnosi sul “crollo della fede”.
Chi ha ascoltato davvero questi giorni, ha potuto comprendere che non serve vedere tutto per riconoscere che qualcosa è cominciato. Il compito dell’adulto non è verificare”, ma offrire le condizioni perché ciò che inizia possa crescere.
Non serve che ogni seme diventi albero davanti ai nostri occhi. Serve solo non ostacolare ciò che nasce, non intralciare la grazia con il bisogno di controllo.
Un ragazzo che si mette in cammino non va interrogato sulle sue intenzioni, né valutato per le conseguenze del suo gesto. Va lasciato partire. L’adulto che accoglie questo inizio senza reclamarlo come proprio ha già fatto la parte più difficile. Non si è sostituito a Dio, e neppure ha chiuso la porta prima che l’altro entrasse.
Il Giubileo dei giovani non ha dunque offerto risposte. Ha aperto varchi. E la speranza cristiana non è mai una previsione: è uno spazio affidato alla libertà. Per chi lo ha vissuto da adulto, il compito resta uno solo: non chiedere che l’altro somigli a sé, ma permettere che diventi ciò che è. Il resto, come sempre, non è nelle nostre mani.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.