I NUMERI/ Le scelte suicide dell’Italia per il futuro del lavoro

- Mario Mezzanzanica

Il mondo del lavoro sta attraversando un periodo di cambiamenti importanti, ma la politica italiana sembra non essersene accorta

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La crescita tendenziale dell’occupazione a ottobre 2019 (cioè rispetto a ottobre 2018) è stata pari a +0,9%. Nonostante alcune manifestazioni di positività, la realtà ci dice che la curva dell’aumento dell’occupazione è sostanzialmente stabile. In termini assoluti, gli occupati sono stati +46 mila a ottobre rispetto a settembre (2019). Tale cifra è composta principalmente da lavoratori autonomi, circa 38 mila, che molto probabilmente “scelgono o sono indirizzati” verso questa soluzione per ottenere maggior reddito netto sfruttando la nota flat tax. I rimanenti sono contratti a tempo indeterminato (circa 2 mila) e contratti a termine (circa 6 mila).

Siamo di fronte a qualcosa che pone dei seri dubbi sulle politiche attuate negli ultimi tempi dal Governo in materia di occupazione: il decreto dignità. Infatti, da una parte l’aumento degli occupati di ottobre è dovuto sostanzialmente a lavoratori autonomi e contratti a termine e dall’altra il nostro Paese è arrivato a ottobre 2019 alla quota del 17,2% di lavoratori con contratti a termine (il più alto valore mai registrato finora).

La disoccupazione è diminuita di 0,2 punti percentuali tra il terzo trimestre 2019 e il medesimo del 2018, passando dal 9,3% al 9,1%. Un valore certamente positivo, pur se oggettivamente non elevato anche in considerazione dell’aumento degli inattivi.

In sintesi, le cose non vanno molto bene, si potrebbe dire che stiamo galleggiando e che questa sostanziale tenuta è riconducibile all’andamento economico generale e non alle politiche attuate dal Governo in materia di occupazione. Si può inoltre osservare che se uno degli obiettivi primari dell’esecutivo era “demonizzare” i contratti a termine, bloccarli per far crescere una occupazione stabile, bene, finora, come i numeri ci manifestano, non c’è riuscito.

Viene da chiedersi ancora una volta: la visione dei nostri governanti e le politiche conseguenti sono giuste? Sono quelle che servono per il futuro del lavoro? Sono diversi gli studi in corso in materia di lavoro focalizzati a cercare di cogliere i fattori di cambiamento in atto e le prospettive dei lavori e del mercato del lavoro. Tali studi si focalizzano sull’identificare le professioni in crescita o in declino, i cambiamenti in atto, in termini di conoscenze e competenze richieste per svolgere un mestiere, l’emergere di nuove professioni. I risultati ottenuti consentono di disporre di informazioni estremamente utili e preziose per riflettere su come investire per il futuro dei lavori e conseguentemente dell’occupazione.

Ciò che in sintesi e per ragioni di brevità si può affermare è che i cambiamenti in atto sono rilevanti e riguardano da una parte le competenze e conoscenze richieste per affrontare i lavori e dall’altra la concezione del lavoro. In merito alle competenze e conoscenze due sono le evidenze più significative: l’impatto del digitale, delle tecnologie informatiche sempre più pervasive nei lavori richiesti dalle aziende e dalle istituzioni pubbliche; la rilevanza delle soft e/o non cognitive skills (creatività, autonomia decisionale, responsabilità, capacità di affronto di problemi complessi, ecc.). Questi elementi sono e saranno sempre più decisivi per affrontare i lavori in tutti i settori economici e in tutte le aree aziendali.

In merito alla concezione del lavoro, i cambiamenti in atto sono forse ancora più rilevanti. Il lavoro si sta sempre più presentando come un’opportunità connessa a uno scopo definito e che ha una durata nel tempo “pre-definita”. Questo fatto se fino a poco tempo fa riguardava le aziende che lavoravano su commessa, elemento che strutturalmente richiede flessibilità organizzativa e professionale, oggi riguarda anche le aziende di produzione e di servizi in quanto i prodotti e i servizi evolvono e cambiano molto velocemente. Ciò sta condizionando l’idea di lavoro che da “un posto” diventa una condizione in cui esprimere la propria professionalità, soggetta a elevati cambiamenti nel corso della vita lavorativa e professionale. Certamente questa tendenza è più evidente per le persone di media-alta professionalità, ma sta intaccando profondamente anche le altre. Non è un caso che i dati ci mostrino da una parte una crescita del lavoro temporaneo e dall’altra un’elevata mobilità anche per coloro che lavorano con contratti a tempo indeterminato.

Di fronte a tali cambiamenti il principale investimento per il futuro è certamente il sistema educativo e formativo. Molte grandi aziende se ne sono accorte e hanno avviato Academy dedicate alla formazione del personale; la Comunità europea sta investendo per migliorare la conoscenza dei fenomeni e intervenire nelle strategie di sviluppo delle competenze e delle conoscenze delle persone (per fare alcuni esempi). Il nostro Paese nel contempo continua imperterrito a ridurre i fondi per l’educazione, in particolare terziaria (l’università). Lo Stato ha speso, infatti, solo lo 0,3% del Pil per istruzione terziaria (valore del 2017), nemmeno la metà della media europea pari allo 0,7%. Come nel caso del tasso di occupazione dove siamo tra gli ultimi in Europa, anche per questa voce l’Italia è all’ultimo posto in Europa.

In questa situazione di sostanziale mancanza di visione (che dura da anni) che i governi stanno mostrando in materia di lavoro, rimangono, come spesso accaduto e accade nel nostro Paese, le molte esperienze positive di risposta ai bisogni in diversi ambiti e contesti: enti di formazione che costruiscono risposte ai giovani/issimi per poter imparare un mestiere, scuole e università che sviluppano percorsi di studio innovativi derivanti dalla attenzione cambiamenti in atto (educativi, formativi e lavorativi), aziende che attuano nuovi modelli di gestione dello sviluppo del proprio capitale umano. Questi tentativi rappresentano il punto principale cui guardare per costruire una risposta positiva per il futuro del lavoro e dell’occupazione.







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