Gianmaria Faveretto del Liceo “Fermi” di Padova si è rifiutato di sostenere l’orale di maturità. Una istanza giusta che interroga il sistema-scuola
C’è, nella cronaca recente, un gesto che ha suscitato reazioni contrastanti, ma che merita, al di là dell’immediato, una più profonda considerazione. Un giovane studente, Gianmaria, giunto alla prova orale dell’esame di maturità del Liceo “Fermi” di Padova, ha scelto di non sostenerla, potendo contare – con le prove scritte e i crediti scolastici – su 62 punti, ben due oltre la sufficienza necessaria per maturare i requisiti necessari al conseguimento del diploma.
Dopo aver risposto in modo sbrigativo ad alcune domande rivoltegli dalla commissione per assicurare l’espletamento dell’atto e mettere al sicuro il risultato finale, Gianmaria ha quindi salutato la commissione, firmato il registro, e si è ritirato, rinunciando, di fatto, a chiudere con il colloquio previsto un percorso durato anni.
Non si è trattato di un gesto clamoroso, ma nemmeno di una messa in scena. Nessuna rivendicazione ideologica, nessuna protesta gridata. Solo un’assenza. Un’uscita silenziosa che, proprio per questo, appare tanto più eloquente perché avvenuta per protesta contro un sistema, quello della valutazione scolastica, accusato dallo studente di inadeguatezza e di parzialità.
Il rifiuto dell’orale – e quindi, simbolicamente, della parola pronunciata pubblicamente – non è, in radice, un rigetto dell’interrogazione in sé. È piuttosto un rigetto dell’interrogazione privata di senso. Quando la scuola perde la capacità di fondare le parole che dona, e che richiede, sulla verità e sul bene, ciò che resta è pura formalità, un meccanismo vuoto, un gesto reiterato senza anima.
In un simile contesto, Gianmaria non si è rifiutato tanto di rispondere a delle domande, quanto di partecipare a una rappresentazione pubblica della parola che percepisce come priva di vita. È, in ultima analisi, il rifiuto di parole che non interpellano, che non conducono oltre sé, che non aprono al mistero dell’Essere.
Ogni processo educativo autentico è fondato su una relazione e la relazione implica uno sguardo: uno sguardo che riconosce, che accoglie, che chiama. Se questo sguardo manca, se l’adulto si limita a osservare da una distanza amministrativa o valutativa, allora il giovane si chiude. Si ritira.
Non perché abbia paura della realtà, ma perché non la vede più custodita. Ed è per questo che la parola non nasce, non sorge, non germoglia. Perché non serve più a nulla, non racconta più niente.
Il gesto del silenzio all’orale è allora già giudizio: un giudizio sulla qualità della presenza adulta e sulla sua capacità di offrire un orizzonte alle parole. L’esame – come ogni rito di passaggio – ha senso solo se riconduce alla verità. Non è la prova in sé a essere importante, ma il significato che essa custodisce. Se l’orale perde la sua densità simbolica, se non introduce a un passaggio interiore, se non è occasione di esposizione reale dell’io, allora esso decade a pura formalità.
Il gesto di Gianmaria mostra proprio questo: in un certo qual modo non si è voluto sottrarre alla realtà, ma ha ritenuto che quell’atto – privo per lui di significato – non fosse più realtà, ma una caricatura. Ha sbagliato sede e luogo, ma non ha voluto rigettare la fatica dell’esame, bensì il vuoto che vi ha intravisto. E questa è forse la più severa delle condanne.
Ogni atto educativo dovrebbe costituire una soglia: un luogo in cui la persona viene introdotta nel mistero della propria libertà e della propria responsabilità. Se l’orale non è vissuto come questo passaggio, ma come verifica sterile, allora il senso della parola viene meno. E con essa viene meno la possibilità stessa di edificare l’umano.
L’oralità, infatti, è intrinsecamente legata alla rivelazione. L’uomo, essere dotato di parola, si esprime nel dire. E in questa esposizione si rivela come persona. Quando viene meno la fiducia di potersi esporre senza essere ridotto, la parola tace. E il silenzio non è una pausa, ma un deserto.
Il gesto di quel ragazzo non chiede un applauso né una condanna. Chiede un nuovo inizio. Chiede adulti che non si nascondano dietro ruoli o protocolli, ma che sappiano abitare il silenzio e la fragilità, che sappiano sostenere il peso delle domande senza offrire risposte prefabbricate.
Chiede un’educazione che torni ad avere un’anima. Che non si accontenti della performance, ma che desideri generare. Perché la vera maturità non consiste nel superare un esame, ma nel riconoscere di essere parte di un mondo che ci precede e ci supera. E che attende la nostra libertà come un seme attende la luce.
Quando un giovane si rifiuta di parlare, in fondo, è perché nessuno ha più parlato veramente con lui. Non si tratta semplicemente di biasimarlo, ma di chiedersi: quali parole abbiamo smesso di dire? Quali silenzi non abbiamo più abitato?
La sfida dell’esame di maturità non è riformare l’orale, ma riformare il cuore dell’educazione. Ridare spessore alla realtà. Restituire al rito la sua verità. E riconoscere che solo chi si sente guardato può trovare il coraggio di parlare.
Il silenzio di Gianmaria è un appello. È un vuoto che ci riguarda. E che ci obbliga a tornare a ciò che educare è sempre stato: aprire uno spazio in cui la libertà possa tradursi in parola e fiorire come una delicatissima possibilità, quella di dire “Io” nella grande avventura della vita.
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