I destini dell'ex Ilva e degli stabilimenti italiani di Stellantis sono in bilico, a causa soprattutto di visioni ideologiche
“Le chimere sono animali feroci – ha scritto Sebastiano Vassalli – Gli uomini si nutrono di chimere. Le chimere di uomini”. Il medesimo ragionamento può essere esteso alle ideologie: anch’esse uccidono, non solo gli esseri umani ma anche le fabbriche, dove si produce la ricchezza e il benessere delle comunità. Noi stiamo assistendo, ormai impotenti, all’inesorabile declino di poli produttivi essenziali per l’industria e per l’occupazione, assassinati da una perniciosa ideologia ambientalista.
Se si sfogliano i giornali i titoli ci dicono che questa è l’ennesima settimana cruciale per le sorti dell’ex Ilva. Ieri vi è stato un incontro tra le parti sociali e le istituzioni per preparare la trattativa a oltranza che dovrebbe aprirsi oggi. Bene che vadano le cose si arriverà forse a salvare uno spicchio di quella che fu la più grande acciaieria d’Europa che produceva utili e dava lavoro e reddito, direttamente e indirettamente, a migliaia di famiglie; e soprattutto che era in regola con le prescrizioni di carattere ambientale stabilite dall’Ue.
Gli esecutori materiali del crimine sono tanti, colpevoli di commissioni (la magistratura di Taranto, le istituzioni pugliesi, i vari comitati fondamentalisti, i partiti a caccia di mode e di consenso a ogni costo) o di omissioni (i sindacati che non hanno avuto il coraggio di sfidare la stucchevole sacralità della magistratura, l’estremismo ambientalista e l’opportunismo delle forze politiche e delle istituzioni locali).
Ma i mandanti sono stati gli ideologismi malati che di volta in volta hanno violentato il dibattito politico, imponendosi come unica linea di condotta “politicamente corretta”. Tanto che il ministro Adolfo Urso, colui che ha terminato il “lavoro sporco”, ha avverto il bisogno di illustrare (negoziare?) il suo progetto/scampolo con gli Arcivescovi di Genova e di Taranto.
Ma siamo sempre alle solite; per salvare il salvabile è necessaria la presenza di un rigassificatore nel porto di Taranto, ma la “banda del buco” lo rifiuta. Il ministro Urso, riferendosi all’Accordo di programma per l’ex Ilva, dichiara di aspettare «la risposta degli enti locali e della Regione Puglia perché siamo estremamente rispettosi delle loro competenze e di coloro che i cittadini hanno scelto per governare il territorio.
Se decidono di non poter sostenere sul piano politico una nave rigassificatrice nel porto ne trarremo le conclusioni. Ovviamente lo sviluppo del polo del Dri (Direct reduced iron, ndr) previsto per Taranto, in mancanza dell’approvvigionamento del gas che è assolutamente fondamentale, sarà realizzato laddove ci saranno le condizioni».
A Genova? Non facciamoci illusioni: anche la nuova Giunta comunale è condizionata dai veti ambientalisti.
Nelle ultime ore si è levato un grido di allarme a proposito della presenza del gruppo Stellantis nel nostro Paese. Le cause del declino sono sicuramente più complesse di quelle che hanno demolito l’ex Ilva. Quando i cecchini con o senza toga hanno preso di mira lo stabilimento di Taranto non c’era nessuna crisi dell’acciaio, tanto che quell’opificio aveva incontrato l’interesse di un grande produttore internazionale, Arcelor-Mittal, che è stato praticamente cacciato in malo modo;
nel caso Stellantis, invece, è operante la crisi del settore dell’auto che deriva da diversi fattori, il principale dei quali, tuttavia, è il solito ambientalismo radicale determinato ad abbattere la CO2 in tempi risultati inadeguati, tanto più se si considera che l’Europa ha in carico solo il 7% delle emissioni globali.
La guerra al motore a scoppio a favore dell’elettrico ha finito per favorire i produttori cinesi più avanti in questa tecnologia, costringendo l’Europa a difendersi con i dazi.
Uno studio della Fim-Cisl, illustrato, ieri, dal suo Segretario generale, dimostra che – nonostante le dichiarazioni patriottiche del nuovo manager Antonio Filosa con la sua nuova squadra di comando del Gruppo – gli stabilimenti dislocati in Italia sono lontani dal raggiungere standard produttivi sostenibili.
Nel primo semestre 2025 il gruppo Stellantis ha prodotto in Italia complessivamente 221.885 unità tra autovetture e veicoli commerciali, in calo del -26,9% rispetto allo stesso periodo del 2024. Le autovetture registrano una flessione del 33,6% (123.905 unità), mentre i veicoli commerciali sono scesi del 16,3% (97.980 unità). Per l’intero 2025, il sindacato stima una produzione di circa 440.000 unità totali, con circa 250.000 autovetture prodotte. Nell’intero 2024, sempre secondo i dati Fim-Cisl, Stellantis ha prodotto in Italia 475.090 unità (-36,8% sul 2023), con le autovetture a 283.090 unità (-5,7%).
Se non vado errato si tratta di meno della metà degli impegni produttivi assunti, un esito che ha necessariamente delle implicazioni di mercato perché non si poteva pretendere che il gruppo producesse per il piazzale. “Tutti gli stabilimenti auto evidenziano un forte peggioramento. A differenza del 2024, in cui almeno Pomigliano rappresentava un’eccezione positiva, oggi nessun sito sfugge alla situazione di forte difficoltà” ha precisato Uliano.
“Non si intravedono segnali di ripresa entro fine anno. Anzi, il calo dei volumi e l’uso degli ammortizzatori sociali potrebbero aumentare, coinvolgendo già oggi quasi la metà della forza lavoro del gruppo. La partenza produttiva della 500 ibrida prevista per novembre e i nuovi modelli di Melfi potranno dare risultati significativi solo nel corso del 2026. Tuttavia, il livello di caduta dei volumi nel 2025 è superiore alle previsioni”, ha continuato il Segretario generale della Fim,
precisando che “restano validi gli impegni presi in sede istituzionale, che dovranno essere verificati puntualmente con i nuovi vertici: 2 miliardi di investimenti negli stabilimenti italiani, 6 miliardi di acquisti da fornitori nazionali, Obiettivo di 1 milione di veicoli entro il 2030, legato però all’andamento del mercato”.
Il sindacato ricorda i progetti confermati: la nuova 500e a Mirafiori in aggiunta alla 500 ibrida a Melfi, portando l’offerta a 7 modelli. È stato annunciata ad Atessa (CH) la nuova gamma large sui veicoli commerciali. A Cassino è previsto lo sviluppo anche delle versioni ibride delle full electric previste su Stelvio e Giulia e in aggiunta un nuovo modello top di gamma sempre su piattaforma large. Su Modena viene lanciata la collaborazione con Motor Valley per il lancio del progetto alto di gamma.
Invece, continuano a mancare ancora risposte importanti su Termoli dopo lo stop alla Gigafactory destinata alla produzione di batterie Questa decisione, secondo Uliano, rappresenta un fatto estremamente grave. Rinunciare a questo investimento significa negare una prospettiva industriale e mettere a rischio occupazionale circa 1.950 lavoratori dello stabilimento e il tessuto produttivo del territorio molisano. Un investimento strategico, indispensabile per garantire la tenuta della filiera automotive italiana nella transizione verso l’elettrico, ha continuato Uliano, ricordando le richieste di continuità produttiva per lo stabilimento.
“Un primo, ma non ancora sufficiente, segnale positivo è l’assegnazione a Termoli del nuovo cambio EDCT. Una commessa importante, ma che compensa solo in parte la perdita del Fire”, ha precisato, indicando che “è necessario adottare altre iniziative per ridurre l’impatto degli ammortizzatori sociali”.
Entro il primo semestre del 2025, Stellantis e Acc avrebbero dovuto sciogliere le riserve sull’avvio dell’investimento, “ma a oggi non abbiamo ricevuto alcun riscontro, e temiamo uno stop definitivo. e sul rilancio di Maserati e altri aspetti che saranno oggetto di verifiche nei prossimi mesi con Stellantis e Governo”.
Alla luce del fatto che dal 23 giugno 2025 si è insediato il nuovo Ceo Antonio Filosa, per Uliano “diventa quindi indispensabile in tempi brevi un primo incontro con le organizzazioni sindacali italiane per costruire positive relazioni sindacali, necessarie per affrontare le difficoltà che stiamo attraversando”.
A questo punto il sindacalista avverte nell’aria una domanda: chi paga? “Le risorse finora stanziate dall’Ue per il settore automotive (2,8 miliardi di euro) sono del tutto insufficienti per sostenere un comparto strategico in piena trasformazione, che rischia ricadute gravi sia sul piano industriale sia su quello occupazionale”. “Serve un deciso cambio di passo: è necessario un piano industriale europeo espansivo, sostenuto da debito comune, e un nuovo Fondo europeo con dotazioni paragonabili al Next Generation Eu, per accompagnare la transizione garantendo sostenibilità non solo ambientale, ma anche sociale”, ha aggiunto.
“Anche il Governo italiano deve fare la propria parte, individuando risorse adeguate per sostenere e rilanciare il settore automotive e l’intero indotto”, ha proseguito Uliano, spiegando che “a oggi, le uniche novità a livello europeo riguardano la rimodulazione delle sanzioni sulle emissioni di CO2 previste per il 2025. Misure che, seppur positive, non sono sufficienti ad arginare le ricadute industriali e occupazionali già in atto”.
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