Occorrerebbe ripristinare l'immunità parlamentare dopo aver approvato la separazione delle carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti
Un parlamentare, un ministro, un presidente del Consiglio (il ragionamento vale naturalmente anche se declinato al femminile) se volesse interferire con le azioni di un Pubblico ministero potrebbe al massimo fargli il solletico sfogando un po’ di frustrazione sui media rilasciando qualche dichiarazione risentita. Un Pubblico ministero se volesse interferire con le azioni di un parlamentare, un ministro, un presidente del Consiglio potrebbe rovinargli la vita con la sola complicità di un poliziotto o un carabiniere o un finanziere.
Chi fosse affezionato al principio costituzionale della parità dei poteri avrebbe di che riflettere su questa enorme e ormai insopportabile disparità di prerogative. Da una parte una sempre più evidente impotenza, dall’altra una forza di fuoco difficilmente contrastabile. E se resta valido il principio che il potere corrompe e il potere assoluto corrompe assolutamente ci sarebbero molte ragioni per consigliare un riequilibrio nei rapporti tra le principali istituzioni dello Stato restituendo alla politica l’agibilità perduta (anche per colpa propria).
Questa la cornice in cui s’inquadra la discussione tornata in vita di recente sul ripristino dell’immunità per deputati e senatori secondo la volontà dei Padri Fondatori della Repubblica. Un’immunità non abolita come frettolosamente si afferma, ma fiaccata dalla modifica alla Costituzione intervenuta nel 1993 per eliminare l’autorizzazione a procedere e consentire dunque che i parlamentari possano essere processati senza la preventiva autorizzazione della Camera di appartenenza finendo alla mercé degli accusatori.
Tra i giganti dell’Assemblea costituente che tra il 1946 e il 1947 stilarono la Carta che dal 1848 è al fondamento dell’ordinamento giuridico del Paese possiamo ricordare il presidente repubblicano Meuccio Ruini, il comunista Palmiro Togliatti, i democristiani Giuseppe Dossetti e Amintore Fanfani. Avversari in tante battaglie, questi e altri esponenti di spicco dei partiti chiamati a edificare sulle macerie della guerra decisero che i rappresentanti del popolo dovessero godere di una garanzia rafforzata per non essere ricattabili.
Il punto di svolta è Tangentopoli. Messa alle corde da un assalto insolito e massiccio della magistratura, un’intera classe dirigente si fece travolgere da inchieste sommarie rivolte a punire più i costumi che i reati. L’incalzare dell’opinione pubblica che abbracciò con ardore, aizzata dai giornali, la rivoluzione che sembrava dovesse farsi storia portò i pochi sopravvissuti e i molti figuranti che nel frattempo avevano sostituito i caduti sul campo al gesto estremo di mostrare il petto nudo al carnefice di turno semplificandogli il compito.
Quello che è seguito è cronaca di tutti i giorni. E sappiamo che la giustizia – per responsabilità di chi ha abusato di una posizione diventata dominante – si è smarrita nei meandri di lotte intestine e di inchieste finite nel nulla per la loro inconsistenza. In breve è venuta a mancare nel Paese quella fiducia che ne aveva sorretto per tanti anni l’iniziativa. Da qui la possibilità che si torni all’origine sull’immunità parlamentare dopo che sia andata in porto la separazione delle carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti.
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