Giovanni Toti si è dimesso e subito, improvvisamente, dopo 80 giorni di arresti domiciliari, è stato rimesso in libertà (“perché così non potrà inquinare le prove”), ma nel frattempo la giunta regionale ligure si è dimessa e – a fine ottobre – la Liguria andrà a nuove elezioni.
Un governatore che godeva di vasto consenso (maturato anche dopo l’inizio delle lunghissime indagini non ancora pubblicizzate) è stato costretto a dimettersi prima ancora di ogni verdetto giudiziario e perfino di rinvio a giudizio, con la tacita ma concreta minaccia alternativa di una pre-condanna “eterna” ai domiciliari. Il tutto senza che ancora oggi l’opinione pubblica abbia potuto sapere e capire con un minimo di chiarezza di quali reati Toti (che si professa innocente) si sarebbe effettivamente macchiato.
Lasciamo perdere tutte le contraddizioni di questa specifica inchiesta – dal rinvio per quattro mesi della decisione del Gip sugli arresti di Toti (allora, dov’era l’urgenza?) all’aspetto, sostanziale, che se c’erano reati evidenti, la procura li ha lasciati continuare impunemente per mesi e per anni –, per cogliere il fatto centrale: un governatore scelto dagli elettori ha dovuto dimettersi, come già avvenuto in tante altre circostanze simili, per inchieste che poi – alla fine – spesso sono sostanzialmente finite nel nulla.
Nei giorni scorsi Matteo Salvini ha ripreso un tema caro anche a Forza Italia: una potenziale riforma della legge Severino che non porti alle immediate ed automatiche dimissioni ed incandidabilità di un eletto, almeno ad un certo livello, se non ci sia stata almeno una condanna in primo grado o in alternativa un rinvio del processo a fine mandato per non pregiudicare l’attività amministrativa.
Tema delicato, ma da approfondire, e che purtroppo si scontra con la lentezza delle italiche procedure giudiziarie, perché rischierebbe di valere anche l’inverso, ovvero che un politico colpevole o corrotto tiri per le lunghe un’inchiesta o un processo a suo carico per anni continuando così intanto nel potenziale malaffare; che è poi l’accusa mossa tante volte a sinistra nei confronti di Berlusconi.
L’ipotesi di Salvini (i garantisti sono rimasti silenziosi) ha scatenato i vertici del Pd e del M5s, in questa occasione particolarmente “forcaioli”, ma la scontata polemica alza solo fumo e non risolve la sostanza perché, appunto, ci possono essere forzature in un senso o nell’altro, con evidenti e reciproche accuse – a seconda del versante politico cui appartiene l’imputato – di interpretazioni più o meno estensive della magistratura inquirente sui fatti oggetto di indagine.
In sintesi: non si dovrebbe arrivare a una condanna o almeno ad un rinvio a giudizio prima di un “impeachment”? Per Toti non c’è stato neppure quest’ultimo e situazioni come queste rischiano di diventare un mezzo di pressione per stoppare qualsiasi politico, magari critico nei confronti di una magistratura locale che facilmente potrebbe così “vendicarsi” di accuse scomode.
Tutti aspetti che non sarebbero sollevati se i magistrati italiani fossero immuni da posizioni politiche, ma visto che non lo sono, questa è la realtà.
Che addirittura poi a Genova, a prendere in mano le redini del gruppo imprenditoriale coinvolto nella vicenda Toti, sia stato proprio quel David Ermini che è stato ed è un politico Pd, già vicepresidente del Csm, appare come la ricerca di un “parafulmini” giudiziario da parte del gruppo Spinelli e rende ancora più sfacciati i dubbi sullo sfondo politico di una vicenda che, eliminando Toti, ha messo ko un intero schieramento politico.
Se invece di una politica “urlata” si avesse il coraggio di riflettere seriamente, ci si renderebbe conto che è sempre più indispensabile separare al più presto le funzioni inquirenti e giudicanti, ma rendendo anche effettivamente indipendenti il Gip e il tribunale del riesame dalle procure, anche dal punto di vista territoriale.
Pensare poi che in Europa si punta il dito sul governo che in qualche modo vorrebbe condizionare i giudici quando queste esperienze italiane sottolineano l’esatto contrario, ha del surreale, anche perché l’unica cosa a unire strettamente i giudici italiani è la loro forte difesa di “casta”. E almeno su questo quasi tutti gli italiani sono concordi.
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