I pro-Pal si sono appropriati di una difesa preconcetta del dramma palestinese e lo usano contro il governo. Ieri la manifestazione di Roma
La mobilitazione del 3 ottobre in favore delle quaranta imbarcazioni (la Flotilla) dirette verso la striscia di Gaza in missione umanitaria, lo sciopero generale che l’ha accompagnata e la manifestazione nazionale che si è svolta ieri a Roma hanno le loro ragioni, che possono essere comprese, così come presentano anche, al loro interno, una dinamica discorsiva intollerante che va denunciata.
Per comprendere chiaramente le prime è necessario sottoscrivere e condividere l’assunto che ne è alla base.
Si tratta del dissenso profondo e radicale nei confronti della reazione israeliana alla strage del 7 ottobre 2023. Questa reazione è stata molto di più di un’azione militare: i termini ricorrenti che parlano di sterminio, massacro e genocidio, suffragati da una più che vistosa documentazione diffusa quotidianamente dai media, testimoniano qualcosa di tremendo.
Un popolo disarmato allo sbando, che diventa una barriera umana involontaria situata tra uno dei più potenti eserciti del mondo ed una delle formazioni terroriste più agguerrite, non può non suscitare pietà e indignazione.
La formazione terroristica di Hamas che, dopo aver perpetrato la strage del 7 Ottobre, evita qualsiasi confronto in campo aperto, fa del popolo palestinese un involontario e inaggirabile scudo umano, ma finisce anche per guadagnare vistosi consensi presso gran parte dell’opinione pubblica, in quanto si viene a trovare nella posizione dell’aggredito.
Per di più non tutti si fermano ad un’indignazione verso il Golia israeliano, ma danno vita ad un’analisi più radicale. Non manca infatti chi, come Judith Butler e Ginevra Bompiani tra molti altri, definisce la strage del 7 Ottobre come un atto di “resistenza” contro quella che – a loro avviso – non è affatto una guerra ma un’invasione dell’esercito israeliano.
O chi, come la deputata del parlamento europeo Rima Hassan, giustifica apertamente il massacro perpetrato da Hamas, o ancora chi, come Ana Alcade, attivista della Flottilla, nega che le donne rapite da Hamas siano state violentate.
Si sommano così due analisi che, pur arrivando alla stessa conclusione – la richiesta di cessare immediatamente i combattimenti – si strutturano intorno a due risoluzioni sostanzialmente diverse: la prima condanna Hamas, la seconda la difende.

Questa ambiguità si è riflessa anche nelle forme della protesta ed ha finito con il caratterizzarne i contenuti.
Il ricorso allo sciopero generale di giovedì 3 ottobre, quindi al blocco di tutte le attività del Paese, illegittimo perché effettuato in violazione del parere del Garante, è andato ben al di là della semplice manifestazione a favore della popolazione palestinese della striscia di Gaza, per avere come obiettivo il governo in carica.
A quest’ultimo è stato rivolto un vortice di accuse che vanno dal mancato riconoscimento della Palestina alla mancata condanna di Israele, fino a quella di essere complice di operazioni che non sono più quelle militari di uno stato in guerra, ma si configurano come atti di sterminio contro un popolo inerme. La causa umanitaria viene così superata dalla critica politica. Non è solo lo Stato di Israele ad essere indegno, ma anche quello italiano che non lo condanna.
Lo slogan del “blocchiamo tutto”, apertamente ripreso dalla giornata di manifestazioni avvenuta in Francia il 10 settembre in un contesto totalmente diverso, è stato consapevolmente usato per riassumere una protesta che, come auspicato fin dal novembre dello scorso anno dal leader della CGIL Maurizio Landini, vuole a tutti gli effetti rivestire le forme della “rivolta sociale”.
Il vortice di queste accuse spiega anche – ed in modo evidente – le forme volontariamente aggressive alle quali si è fatto ricorso nelle ultime settimane; forme che hanno trovato nella mobilitazione del 3 ottobre la loro espressione compiuta, amplificando notevolmente la visibilità di quest’ultima
Così, la preoccupazione umanitaria ha ceduto rapidamente il passo alla critica politica della “rivolta sociale” e questa ha aperto la porta alla rivolta degli “antagonisti a prescindere”, dando a quest’ultimi ragioni più che sufficienti per bloccare stazioni e tangenziali.
Non è un caso che la Chiesa cattolica sia stata la più rapida a prendere le distanze da una simile deriva. Ciò le proviene senza dubbio dai principi che incarna, ma anche dall’esperienza che vive nei territori attraversati da un conflitto insano, alimentato da veleni mai risolti, ma anche condannato a ricomporsi.
La formula dei “due popoli, due Stati” invisa tanto alla destra israeliana quanto ad Hamas è il risultato di un cammino della ragione che non può non imporsi. Non è la prima volta nella storia che popoli a lungo macerati in un percorso lugubre di guerre ed attentati, siano costretti alla svolta del dialogo ed al loro reciproco riconoscimento. Ne va del loro futuro, ma anche del nostro.
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