Nel pomeriggio dell’11 agosto 2021 sono stati pubblicati i dati relativi all’inflazione generale e core dei beni al consumo degli Stati Uniti, e riferentesi a luglio 2021 in tendenziale sull’anno. Abbiamo pertanto 4,3% per l’inflazione core e 5,4% per quella complessiva del paniere dei beni; il consensus di Wall Sreet aveva come aspettativa il 5,3% per l’inflazione complessiva e il 4,4% per quella core.
Invece, chi scrive aveva previsto il 5,8% avendo così un eccesso di sovrastima di circa lo 0,4%; ancora una volta va rilevato che a livello qualitativo il forecast delle borse era orientato al rientro dei valori inflattivi: dal 5,4% di giugno al 5,3% di luglio, mentre chi scrive aveva “intuito” la progressione al non abbattimento dei valori inflattivi (al minimo).
Inoltre, la posizione Fed era di un’aspettativa mediana del dato generale del 5%, con valori massimi del 5,4% e minimi del 4,6%; pertanto, si può dire che al momento gli operatori tutti siano ancora impegnati “a caldo”. nel comprendere cosa stia accadendo. C’è un orientamento ottimista che vede il rallentamento del tasso dell’inflazione core (i settori meno variabili alle oscillazioni momentanee, del tipo affitti, svariati servizi, tempo libero, auto, ecc.), come il motivo principale per poter tirare un sospiro di sollievo in quanto si è di fronte all’inizio di una grande frenata dei prezzi. Altre impostazioni non hanno un quadro così roseo e lineare, e in questo intervento si abbraccia questa seconda visione di fondo.
In sostanza, dalla lettura analitica dei dati si osserva che la generalità delle PMI statunitensi non abbia ancora scaricato sui prezzi gli aumenti energetici, e questo in termini di relazioni macro- economiche vuol dire che si è data e si sta dando grande fiducia alle rassicurazioni Fed sulla transitorietà e sulla piccola ampiezza del fenomeno inflattivo; aspettative degli operatori ancora accomodanti. Giova però ricordare con molta chiarezza che il barile di petrolio Wti con quotazioni standard sopra i 65 dollari rimane un prezzo troppo alto se perdurante per 4/5 mesi; in questa accezione “troppo alto” significa che alimenta inflazione, e in questa ipotesi che si va presentando si vuole affermare con molta chiarezza che se non si va in tempi brevi e in modo costante sotto i 65 dollari al barile, l’inflazione non scenderà sotto il 5% (con buona pace degli ottimisti). Mentre un posizionamento standard intorno ai 72 dollari al barile Wti significa inflazione in cammino verso l’area del 6% annuo tendenziale.
Ma la considerazione appena presentata si basa su un’insidia celata e velenosa: quale sarà l’evoluzione del Covid-19 e quali risposte?
Se si fa riferimento al 2020 (annus horribilis), si ricorderà come a un certo punto i futures sul petrolio Wti erano diventati negativi: detto in modo chiaro, chi comprava spot non aveva alcun prezzo forward più alto per liquidare i futures; tutto questo perché? Perché l’Opec+ aveva un tale ammontare di produzione non consumata che i depositi mondiali di stoccaggio riserve non erano più in grado di contenere nulla; a questo punto l’Opec+ ha dovuto sempre più chiudere campi petroliferi di estrazione.
Dati i fatti di cui sopra, è poco probabile che quest’anno l’Opec+ si faccia sorprendere come nel 2020, quando a seguito delle chiusure continue e disordinate da Covid-19, lo stesso (Opec+) si trovò ad affrontare senza strategie e in modo scoordinato un mondo impazzito; detto in modo forte, quest’anno l’Opec+ reagirà in modo sovraperformante alle eventuali e temute chiusure da Covid-19 (se dovessero rendersi necessarie) e questo significa che al minimo segnale negativo verrà tagliata la produzione di petrolio in maniera anticipata e in maniera più intensa del previsto; tutto questo vuol dire che a contrazioni della domanda di qualsiasi livello dovute alla pandemia si opporranno tagli alla produzione di petrolio più intensi e severi, e tutto questo per scongiurare di nuovo futures negativi e soprattutto prezzi spot che possano andare sotto i 45 dollari al barileWwti, accettando di fatto fiammate di prezzo fino agli 80-90 dollari al barile se la produzione venisse tagliata in modo troppo virulento.
Queste di cui sopra sono le prospettive pericolose che vengono fuori da un atteggiamento Fed troppo accomodante: l’Opec+ non è di proprietà degli Stati Uniti sebbene gli Usa abbiano una grandissima influenza dentro esso; questo spiega anche il perché delle furie di Biden verso la Russia ricattatrice e teppista in Putin, per il petrolio e le testate nucleari. L’ordine mondiale è di diritto statunitense, e la Russia è solo una recalcitrante bestia da far rientrare ogni volta all’ordine.
I numeri crudi danno una realtà più immediata degli scenari: a oggi abbiamo circa 96 milioni di barili di petrolio estratti ogni giorno nel mondo, di questi circa 18 milioni e in prima posizione vengono dai pozzi di petrolio statunitensi, in seconda posizione la Russia con circa 13 milioni di barili estratti al giorno, poi a seguire Arabia Saudita, Venezuela, Stati del Golfo, ecc. (la nostra Basilicata è al livello di 40.000 barili giornalieri).
Si deve annotare, però, che con un semplice schiocco di dita di Putin in due mesi la Russia potrebbe arrivare a estrarre 30 milioni di barili al giorno (primazia assoluta senza se e senza ma). Sono questi i barili di petrolio che vanno di traverso agli Stati Uniti, a Biden, alla Fed.
Sempre di chiusura: l’oro sta subendo oscillazioni di prezzo violente e ingiustificate; un analista di materie prime ha dichiarato che queste oscillazioni sono foriere di tempeste in arrivo.C’è pieno accordo in questa prolusione.
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