Due partiti lasciano il Governo: stretto fra forze religiose e laiche, Netanyahu dà priorità alla sua sopravvivenza politica e non alla pace
Parliamo di Israele. In quella terra di sangue e promesse infrante, Benjamin Netanyahu si aggrappa al potere come un naufrago a un relitto, mentre il suo governo, ridotto a un’ombra di minoranza, vacilla sotto il peso di una crisi che sa di fine.
Il 16 luglio scorso, l’uscita dei partiti Ebraismo della Torah Unito (UTJ) e Shas dalla coalizione di governo ha trasformato la Knesset in un’arena di coltelli affilati. La disputa sulla leva militare dei religiosi ultraortodossi, ordinata dalla Corte Suprema nel 2024, è il nodo gordiano della situazione: gli haredim, custodi gelosi della loro vita di studio religioso, rifiutano il servizio militare, allo stesso tempo un Paese stanco di guerra chiede giustizia.
Netanyahu ha una finestra fino al 20 ottobre, quando la Knesset riprenderà i lavori dopo la pausa estiva, per tessere accordi che gli permettano di far sopravvivere il suo governo. Ma in questo gioco di specchi ogni mossa è un rischio, e il processo di pace, che è già un’utopia, resta sepolto sotto le macerie della sua ambizione.
La sua prima carta è un compromesso con UTJ e Shas, i pilastri ultraortodossi della sua coalizione. Potrebbe proporre una nuova legge sulla leva, un fragile castello di carte che garantisca esenzioni per gli studenti delle yeshiva o offra loro un servizio civile alternativo. Gli haredim, che rappresentano il 10% d’Israele ma crescono come un’onda inarrestabile, vedono nella loro esenzione un diritto divino. Netanyahu potrebbe blandirli con fondi per le loro comunità o poltrone ministeriali. Ma ogni concessione agli ultraortodossi è un affronto ai laici, che, reclamano equità con il 70% dell’elettorato. E poi c’è il rischio che i falchi di destra, come Itamar Ben-Gvir, vedano in queste mosse una debolezza di chi è pronto a pugnalare il loro leader.
Un’altra strada, più tortuosa, potrebbe essere sfruttare i negoziati di Doha per un cessate il fuoco a Gaza. Qualcuno parla di una possibile tregua di 60 giorni in cambio di ostaggi, un trofeo che Netanyahu potrebbe sbandierare per placare l’opinione pubblica e mostrare forza. Ma Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, i signori della destra estrema, hanno giurato di far cadere il governo se si cede a Hamas.
E così, Netanyahu cammina su una corda tesa: un passo falso e la coalizione si sgretola. La guerra a Gaza, che ha devastato speranze e vite degli ebrei vittime del 7 ottobre 2023 e di decine di migliaia di palestinesi dopo di loro, è il suo scudo, ma anche la sua condanna: prolungarla lo ha tenuto in sella, ma ora lo intrappola.
Netanyahu potrebbe cercare alleati tra l’opposizione – Yesh Atid di Yair Lapid o Blu e Bianco di Benny Gantz –, ma è un sogno quasi blasfemo. Lapid, che ha cercato di far sciogliere la Knesset l’11 giugno 2025, e Gantz, che ha abbandonato la coalizione di emergenza nel 2024, vedono in Netanyahu il simbolo di ogni fallimento. Offrire loro un ruolo in cambio di un cessate il fuoco a Gaza sarebbe come chiedere a un lupo di salvare l’agnello. La sfiducia è un muro insormontabile, e i sondaggi in Israele ci dicono che il partito Yesh Atid vincerebbe in elezioni anticipate. Perché, allora, Lapid dovrebbe salvare un uomo che odia?
Netanyahu potrebbe anche scegliere di sopravvivere come governo di minoranza fino a ottobre, sfruttando la pausa della Knesset. Il partito Shas potrebbe ancora sostenere alcune leggi. Ma questa è una danza sul filo, con la Corte Suprema che incombe, e pretende una legge sulla coscrizione che rispetti la legalità.
Insomma, ogni mossa è un rischio. E il processo di pace, quel sogno fragile, resta un’eco lontana, schiacciato da un uomo che lotta non per la storia, ma per la sua sopravvivenza.
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