Sondaggio: cresce notevolmente la quota di persone che vede crescere le tensioni sociali (63%) soprattutto fra i ceti popolari e la generazione Z

Il disagio sociale, ormai, è una costante, un segno dei tempi. Ma ora la rabbia è diventata così forte da aumentare la possibilità di disordini sociali. Il 63% delle persone, infatti, giudica che siano cresciute le tensioni sociali, mentre il 56% ritiene sempre più probabili veri e propri disordini, anche se in una realtà che non vede soggetti politici in grado di incanalare la protesta.



I motivi di questa percezione, spiega Enzo Risso, direttore scientifico di Ipsos e docente di teoria e analisi delle audience all’Università La Sapienza di Roma, sono principalmente l’aumento dei prezzi e la precarietà del lavoro, sentiti particolarmente dai ceti popolari e dalla generazione Z.

A seguire, la gente è preoccupata anche degli stipendi inadeguati e della disuguaglianza tra ricchi e poveri, che diminuisce per molti le possibilità di accesso ai servizi e frena l’ascensore sociale. Una situazione che incide sull’inverno demografico, perché alla fine pesa soprattutto sui giovani, che non sono messi in condizione di farsi una famiglia.



Da dove nasce la paura della protesta e, soprattutto, perché una crescita così consistente delle persone che percepiscono tensione sociale?

Il tema di fondo è che è aumentata la percezione che stia crescendo la tensione sociale. Le persone lo colgono sui social, nelle conversazioni con parenti e amici, e leggono questo senso di rabbia, di frustrazione, di non soddisfazione delle persone per la vita che svolgono. Non è un caso che questo avvenga soprattutto nei ceti popolari o nella generazione Z, dove la percezione che intorno a sé ci sia una crescita della tensione sociale sale rispettivamente al 70% e al 72%. Sono i segmenti della società più colpiti dalla mancanza di futuro, di prospettive, da un senso di disagio.



Questo 63% di persone preoccupate per le tensioni sociali coincide o interseca l’area dell’astensionismo?

C’è una correlazione, ma solo in parte. Legato al disagio delle persone c’è il tema della rabbia sociale nei confronti degli imprenditori, dei datori di lavoro, della politica, del Parlamento. È un disagio profondo che in qualche modo ancora non si esprime e molto probabilmente non si esprimerà in movimenti di protesta, ma porta anche all’aumento del numero degli astenuti. La cosa che colpisce nei dati è la crescita dell’11% rispetto all’anno scorso del senso di disagio.

Le prime due voci che motivano il disagio sono i prezzi (45%, che sale al 59% nei ceti popolari) e la precarietà del lavoro (39%, che diventa il 47% nel Mezzogiorno). I dati ufficiali, però, dicono che l’inflazione è calata e, dall’altra parte, che non ci sono mai stati tanti occupati come adesso. C’è uno scollamento anche tra la narrazione della politica nei confronti della nostra realtà e il vissuto delle persone?

La realtà delle persone non è mai stata rappresentata né dai dati del PIL né dalle statistiche ufficiali. Riguardo al fenomeno della sicurezza, assistiamo a un calo del numero dei reati dal 1992, eppure è cresciuto il senso di insicurezza delle persone: c’è una sostanziale differenza tra la percezione che vivono le persone nel quotidiano e le statistiche.

È evidente che, nonostante ci sia un aumento nel numero delle persone occupate, la qualità di questi lavori non è eccelsa; per questo il senso di disagio del lavoro provato dalle persone è costantemente in crescita. Siamo di fronte a nuovi fenomeni di alienazione da lavoro che erano quasi spariti dalla letteratura contemporanea, invece siamo tornati a situazioni di frustrazione, di fastidio provato sul lavoro. Da questo punto di vista, la politica, spesso e volentieri, farebbe bene a non soffermarsi solo sui dati ufficiali.

L’elenco delle motivazioni che spiegano il sondaggio, in pratica, è un programma di governo: ci dicono su cosa la gente vuole che si intervenga. Il 37% sostiene che gli stipendi hanno perso la loro capacità di acquisto. E poi c’è il tema dei giovani, la cui insofferenza è sempre superiore a quella delle altre categorie. Il 38% di loro avverte una mancanza di prospettive. Come mai?

Abbiamo creato una generazione di scalatori, nel senso che, a differenza delle generazioni precedenti, i giovani si trovano di fronte una società in salita, avvertono il senso della precarietà: parliamo tanto dell’inverno demografico, ma è difficile che un ragazzo o una ragazza possano pensare di mettere al mondo dei figli non avendo certezze lavorative. Gli stipendi bassi costringono le persone a ridurre i propri progetti e le aspirazioni.

Senta, uno dei temi che motivano il disagio è la disuguaglianza: il 31% degli intervistati parla di disuguaglianza crescente anche nei confronti dell’accesso a servizi e opportunità. Da dove nasce questa percezione?

C’è la sensazione che i ricchi abbiano sempre di più e chi non lo è sempre di meno. Da un lato si vede Jeff Bezos che, per il suo matrimonio, può sperperare i suoi soldi, cosa che un tempo facevano magari i reali. Ci sono persone che possono permettersi tranquillamente tutto questo e altri che non arrivano dalla mattina alla sera.

Più della metà degli italiani (56%) pensa che sia possibile un incremento dei disordini sociali. Non parliamo di semplice disagio. Perché la gente pensa che la rabbia per la propria condizione possa esprimersi anche così?

Non è una cosa nuova, basta ricordare il movimento dei forconi nel 2011. In una fase come questa, in cui la società è molto parcellizzata, frammentata, in cui non ci sono più grandi organizzazioni di massa che riescano non solo a raccogliere il consenso ma anche a determinare l’orientamento delle proteste, svolgendo un’azione di mediazione e di raccordo, il rischio è che ci siano momenti in cui le persone esasperate puntano luddisticamente a distruggere qualcosa. Lo abbiamo visto in Francia con i gilet gialli. Sono realtà che non esprimono, però, la capacità di costruire un movimento.

L’apprensione per possibili proteste violente è aumentata del 14%. Perché una crescita così repentina?

Veniamo da un periodo faticoso. C’è stato il Covid, poi l’aumento dell’inflazione e del costo del gas, così come del costo del denaro. È un periodo in cui, in media, i prezzi alimentari sono aumentati del 12%: sono dati che, ogni tanto, qualcuno si dimentica, guardando solo agli ultimi dati senza sommare gli aumenti che si accumulano di anno in anno. Nel 2021-2022 abbiamo registrato un più 12% di aumento dei prezzi dei beni alimentari. L’anno dopo c’è stato un rallentamento, scendendo al 7%, poi al 5%, l’anno dopo ancora al 3%, ma alla fine le famiglie non hanno avuto aumenti di stipendio pari all’aumento del costo dei prodotti, facendo base il 2021.

(Paolo Rossetti)

 

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