La scuola fa male a chi la subisce

- Giuseppe Bertagna

In Italia, quasi l’80% dei giovani, a 16 anni, manifesta tuttora problemi di compatibilità con la scuola

Scuola_Aula_LezioneR400 Learning Week, un nuovo modo di fare formazione

Quasi l’80% dei giovani, a 16 anni, manifesta tuttora problemi di compatibilità con la scuola che abbiamo, organizzata da circa 200 anni sui programmi lineari, sui libri di testo, sulle ore di insegnamento e sulle discipline separate, sulle classi di età, sulla lezione dalla cattedra. Abbiamo bocciature, abbandoni, ripetenze, disadattamenti, insufficiente rendimento, rimandi a settembre in almeno due discipline, modestia culturale riassunta in 6 stiracchiati ed aleatori. Da questo punto di vista, per fare il verso al giovane James Marcus Bach e al suo libro di successo, davvero La scuola fa male. E se non fa male, purtroppo, soprattutto se si è bravi, e per qualche aspetto superdotati, come dimostrano casi classici ed eponimi come quelli di un Popper o di un Einstein, annoia e, spesso, finisce per spegnere ogni entusiasmo cognitivo e, soprattutto, creativo.

 

Il 6% dei giovani, a 16 anni, poi, è addirittura fuori da qualsiasi attività formativa scolastica o di istruzione e formazione professionale. Il 26,5% si diploma, alla fine, con un ritardo da uno a sei anni. Quasi il 70% dei diplomati si iscrive quindi all’università. Il 46% degli iscritti all’università, però, è «fuori corso». Uno studente universitario su sei è inattivo: non fa nemmeno un esame all’anno. Un iscritto su cinque non arriva a conseguire nessun titolo universitario: smette prima.

In media, i nostri giovani, nonostante tutti i provvedimenti studiati per evitare il fenomeno, acquisiscono, in questo modo, la laurea triennale a quasi 25 anni e quella quinquennale a quasi 27. Da 3 a 4 anni dopo i coetanei europei o cinesi. Sempre in media, poi, una volta ottenuto l’ambito titolo, soltanto il 47% risulta occupato ad un anno dalla laurea (era il 56,9% solo 5 anni fa!). In Germania, per esempio, la percentuale è del 77,15%, in Finlandia e Francia del 69%.

Questa occupazione, infine, è per un terzo attinente al percorso di studi compiuto, per un altro terzo del tutto indipendente perché richiede genericamente «una» laurea e l’ultimo terzo è giocata su funzioni che non richiedono affatto la laurea, per cui può perfino costituire un handicap per il reclutamento l’averla ottenuta. Il che spiega perché, dal 2000 al 2009, il tasso di attività per i laureati dai 25 ai 29 anni sia sceso, da noi, dall’81% al 68%. Un tracollo preoccupante, se comparato con la media Ue (dall’89,6% del 2000 all’89,1% del 2009) e con gli andamenti inversi di paesi come Belgio, Danimarca, Germania, Francia, Spagna, Ungheria, perfino Grecia.

In compenso, tutti i nostri giovani, anche i drop out, grazie al percorso scolastico e universitario e al milieu familiare e sociale dominante, hanno potuto interiorizzare il pregiudizio negativo sul valore e sulle potenzialità anche culturali e formative del lavoro, soprattutto se manuale. Io non lavoro, titola ad esempio, e con orgoglio, un recente libro. Lavorare evidentemente stanca.

E in effetti, il tasso di occupazione dei nostri giovani dai 15 ai 24 anni, nel 2007, era pari al 24,7%, a fronte del 51,9% cinese, del 52,9% brasiliano, del 34,1% russo, del 53,1% americano, del 55,9% inglese, del 42,9% spagnolo, del 45,9% tedesco e del 30,1% francese. Nel 2010 è peggiorato ulteriormente. E mentre i giovani tedeschi incontrano (dati European Community House Hold Panel) il loro primo impiego, in media, a 16,7 anni, quelli inglesi a 17, danesi a 17,8, i nostri giovani giungono a questo appuntamento addirittura a 22 anni.

 

L’Istat (2010) ci informa, del resto, che il 10, 5% dei giovani italiani fra i 15 e i 24 anni (6,3% al centro, 6,5% al nord e 16,2% al sud) non studia, non lavora e, aspetto ancora più interessante, nemmeno cerca un lavoro. Tantomeno manuale. Prevale invece, come ideale, il modello dell’«intellettuale da consumo» che, per vivere questo ruolo, usufruisce del patrimonio accumulato dai nonni e reso disponibile dai genitori. Se si estende la fascia d’età «giovanile» fino ai 29 anni, la generazione dei Neet (Not in Education, Employment or Training) sale addirittura al 21,2%. Una percentuale che non ha uguali nei 30 paesi dell’Ocse e che è quasi il doppio della media esistente nei 19 paesi dell’Ue.

 

L’aspetto paradossale è che tutto questo accade mentre esistono oltre 400.000 mila posti di lavoro disponibili che nessuno però vuole svolgere o forse sa svolgere (che vanno così a finire agli stranieri). Altro aspetto paradossale è che, sempre più, i neo dottori, peraltro in discipline dure come le scienze fisiche e naturali o la stessa ingegneria, prendano meno di uno qualsiasi dei 400.000 posti non occupati.

 

Aspetto ancora più paradossale, infine, è che tutto quanto prima segnalato accade mentre sono diventate ormai inoppugnabili due dati di fatto. Il primo. Il background familiare influenza in maniera determinante il merito scolastico e anche la possibilità di avere un posto di lavoro dei giovani. Il secondo. La circostanza evidenziata nel primo non condiziona affatto, tantomeno con qualche grado di proporzionalità diretta, il livello salariale, di soddisfazione e di eccellenza conseguibile dai singoli soggetti una volta che essi siano entrati nel mondo del lavoro ed abbiano cominciato la loro carriera professionale.

 

Qui, infatti, le competenze personali, in termini di innovazione, efficienza, efficacia, affidabilità, voglia di migliorarsi, di imprenditorialità, di curiosità e di approfondimento contano molto di più dei titoli di studio e anche del più privilegiato background familiare di partenza. Per cui non esiste lavoro, di qualsiasi natura esso sia, nel quale non si possa crescere e dimostrarsi persone davvero compiute, equilibrate, volenterose e competenti.

I lavori che nessuno vuole

Su 100 posti disponibili per lavorare nell’allevamento dei bovini, dei suini e dei polli quasi 80 restano scoperti. Percentuale che scende di poco per addetti alle pulizie; a 65 per infermieri e ausiliari sanitari (soprattutto delle Rsa); a 42 per i cuochi e addetti di cucina; a 38 per operatori delle costruzioni, dei trasporti e del movimento terra (attrezzature tipo jumbo, sonde, trivelle, frese per la perforazione, gruisti e autogruisti, settore asfalti); a 35 per i diversi lavori artigianali (falegnami, piastrellisti, carpentieri, cementisti, terrazzieri, fornaciai, decoratori, stuccatori, lattonieri, ferraioli, mosaicisti, brasatori…); a 33 per disegnatori, progettisti industriali e cad-cam, montatori meccanici di precisione, addetti al controllo di qualità, addetti agli altiforni; a 32 per operatori «manuali» informatici e telematici; a 29 per gelatai, pasticcieri e sarti; 26 per operatori dei rapporti con i diversi mercati; a 25 per impiantisti elettrici e idraulici; a 21 per estetisti e parrucchieri, tra 10 e 20 a seconda delle zone del paese per macellai e muratori. Solo gli immigrati ormai, e spesso senza alcuna qualificazione in proposito, sembrano disponibili per questo genere di attività lavorative, significativamente indicate con l’espressione «posti in piedi» perché non prevedono una scrivania e implicano il movimento di gambe e mani che portano sudore.







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