Un intervento di Michele Ainis sulla crisi della partecipazione e l’astensionismo ripropone alcune questioni cruciali in tempo di riforme
L’astensionismo è il sintomo ultimo e drammatico di una democrazia italiana “essiccata”, ridotta a “finzione”. È dunque il momento di pensare a “ricostruirla”: restituendola anzitutto alla “sovranità popolare”.
Lo scrive Michele Ainis, costituzionalista militante nella sinistra, ma mai ideologico, corporativo, resistenziale – come altri su Repubblica o altrove – nel conservare a priori “la Costituzione più bella del mondo”.
Certo Ainis non manca – in chiusura del suo intervento – di rilanciare il monito canonico a non riscrivere una Carta “tutta nuova”. E la sua analisi sulla crisi della democrazia istituzionale nazionale “dopo otto decenni” appare un po’ partisan quando punta il dito contro qualità e prassi di Parlamento e Governo (con molta evidenza quelli in carica, fautori del premierato), mentre tiene meno a fuoco una Presidenza della Repubblica sempre più ibrida e semipresidenzialista, a cominciare dal ventennio di due presidenti consecutivi in doppio mandato, entrambi provenienti da una sinistra costantemente minoritaria nel voto popolare.
In tempi di riforma della giustizia – con relativo referendum in arrivo – Ainis non nega eccessi di ruolo da parte della magistratura, sebbene citi come attenuante un sovraccarico d’obbligo a “scegliere fior da fiore – e anche di stabilire di che colore è il fiore – in una legislazione alluvionale e confusa”: fatta soprattutto dal governo per decreto, lamenta il giurista.
Se il focus pare tenere un po’ in secondo piano le crescenti pressioni esterne sulla civiltà democratica nazionale – anzitutto quelle europee sul versante istituzionale e oggi più concretamente quelle geopolitiche – spicca comunque la denuncia di una democrazia reale in cui “ciascuno s’esercita nel mestiere altrui” e “gli eletti si sono impossessati del mestiere che un tempo spettava agli elettori”. È quindi netta – in tempi di dibattito su una nuova legge elettorale – la polemica contro “i listini bloccati in cui i promossi vengono decisi dai capipartito”.
Rimane, soprattutto, un segnale diverso da una narrazione mainstream in Europa che tende sempre più spesso a nascondere strumentalmente la crisi elettorale di singole parti politiche – fatto in sé fisiologico in democrazia – dietro allarmi “antifascisti” e quindi “mobilitazioni democratiche” a difesa di status quo istituzionali e singole posizioni di potere personale (da questa angolatura la Francia appare oggi un caso anche più grave di quello italiano).
L’appello intellettuale di Ainis a riscoprire la matrice profonda della democrazia repubblicana italiana – la “sovranità popolare” scolpita nell’articolo 1 della Costituzione in vigore dal 1948 – appare di per sé molto sfidante sul terreno politico, principalmente verso sinistra. L’appello viene lanciato a valle di ambiziosi referendum persi dalla sinistra (anzitutto incapace di scuotere l’astensionismo) e in avvicinamento a un referendum in cui la magistratura potrebbe vedersi perentoriamente ricondotta al suo alveo costituzionale reale dal voto popolare (non solo da una pur legittima riforma varata dal Parlamento su input del Governo). E fra meno di due anni in Italia si rivota.
Chi vincerebbe le politiche 2027 con una “vecchia” legge elettorale proporzionalista e il ripristino delle preferenze? L’affluenza sarebbe più alta, attratta dalla maggior competitività? Che possibili maggioranze di governo ne uscirebbero?
È mestiere del Consiglio supremo di difesa (gestito in veste funzionariale da un ex parlamentare d’opposizione) “esercitare il mestiere” del governo nell’orientare la politica estera e della sicurezza?
È rispondente alla “sovranità popolare” – in un quadro di democrazia “non finta” – una magistratura “a carriere non separate” che utilizza intercettazioni fin dal primo giorno sui protagonisti di un’importante operazione di finanza di mercato per metterli sotto indagine a operazione conclusa con successo?
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