Riceviamo e pubblichiamo una lettera di Gianni Alemanno, ex ministro e già sindaco di Roma, attualmente in carcere a Rebibbia
Cari amici del Sussidiario,
mi ero appena seduto per scrivere questo intervento, quando è entrato trafelato Fabio Falbo, la persona detenuta con cui scrivo le lettere alle istituzioni per denunciare la situazione carceraria.
Fabio, in carcere da quasi vent’anni, di cui molti in regime speciale, è un imprenditore calabrese condannato per aver truffato fondi europei in associazione a delinquere con altri.
Si è laureato in giurisprudenza in carcere, da anni lavora come “scrivano” aiutando gli altri detenuti che hanno bisogno di assistenza burocratica e legale, ha partecipato a decine di iniziative culturali, artistiche e sociali dietro le sbarre con riconoscimenti pubblici a tutti i livelli, ha un’eccellente valutazione da parte di psicologi ed educatori, ma siccome si è sempre dichiarato innocente non ha mai usufruito fino ad ora neppure di un “permesso premio” di qualche giorno, nonostante manchino meno di due anni al suo fine-pena.
Ma perché era entrato trafelato e sudato? Perché aveva appena contribuito a salvare un’altra persona detenuta che si stava suicidando.
Passando davanti ad una cella singola chiusa per isolamento, lui e un altro hanno intravisto dallo spioncino il corpo di un detenuto marocchino che penzolava sanguinando dalle sbarre. Hanno urlato, è arrivato un agente della Penitenziaria che ha aperto la cella, sono riusciti a sollevare il corpo esanime, in modo da alleggerire e poi tagliare il cappio fatto con le classiche stringhe delle scarpe. Poi hanno dovuto tamponare la ferita al collo con cui il tentato suicida aveva perfezionato il suo intento di morte.
Ma non sapevano come fare: nella cella non c’era nulla, neppure un pezzo di carta igienica, perché il suicida era malato di scabbia, era ribelle ed era stato sbattuto in isolamento senza nessun effetto personale.
Ha posto rimedio alla situazione una rapida corsa di solidarietà tra i detenuti delle altre celle e, alla fine, il corpo che aveva ripreso a respirare è stato trascinato fuori dalla cella, portato a a braccia su un sacco della spazzatura per due piani di scale, fino all’infermeria del Braccio, dove c’era solo un’infermiera, e poi su una barella fino ad un altro braccio del carcere dove finalmente è stato trovato un medico.
Nel frattempo l’agente della Penitenziaria che aveva contribuito al salvataggio si è sentito male per la fatica fatta e per il caldo e quindi, quando sono sceso a vedere la situazione, l’ho trovato steso su una barella dell’infermeria con quattro-cinque detenuti che lo assistevano, tenendogli la mano e offrendogli caramelle per superare la crisi di zuccheri.
Credo che questa immagine dell’agente semisvenuto circondato dai detenuti che lo assistevano con sincera partecipazione, mi rimarrà nella mente come una delle immagini più surreali e toccanti di questa mia esperienza carceraria.
Ecco, vi ho descritto con un episodio (e vi giuro che non ho aggiunto nulla di fantasioso) qual è oggi la situazione delle carceri italiane. Va notato che il Braccio in cui sto, il G8 di Rebibbia, è il migliore di tutta la Regione Lazio, eppure anche qui il sovraffollamento porta persone malate di una malattia contagiosa come la scabbia ad essere reclusi in un reparto “normale” come quello in cui sto io.
Altre persone detenute nei giorni scorsi, per mancanza di posti, sono state lasciate a dormire sui lettini dell’infermeria, un’altra, pur essendo normalmente eterosessuale, è stata messa in una delle celle del reparto dei transessuali, altri hanno dovuto sdraiarsi su brande messe al centro di celle costruite per quattro persone, dove già dormiamo in sei.
Il sovraffollamento medio delle carceri è al 134% ovvero 63mila detenuti accatastati in reparti dove la capienza reale è di 47mila posti. Nel carcere milanese di San Vittore il tasso di sovraffollamento ha superato il 220%, a Regina Coeli, nel cuore di Roma, è al 192%.
E questi numeri sono destinati a crescere di 100-200 persone al mese, mentre il Governo continua a illudersi di fronteggiare questa situazione – che la Corte europea dei diritti dell’uomo giudica equivalente alla tortura e che porterà quindi ad una nuova procedura d’infrazione comunitaria nei confronti dell’Italia – promettendo di costruire nuove carceri, che nel caso migliore cominceranno a vedere la luce tra cinque anni.
Recentemente il ministero della Giustizia ha predisposto un piano di 32 milioni di euro per l’ampliamento di nove istituti penitenziari mediante l’installazione di moduli detentivi prefabbricati. Ebbene, questo intervento dovrebbe mettere a disposizione 384 nuovi posti in cella, con un costo medio per detenuto di 83mila euro: una goccia nel mare, a fronte del sovraffollamento che abbiamo descritto.
Ma tornando all’episodio che vi ho raccontato, c’è da sottolineare la carenza di assistenza sanitaria, che si concretizza nella mancanza di adeguati presidi medici all’interno del carcere e nell’assoluta carenza di personale per le scorte che devono portare i detenuti in ospedali esterni agli istituti di pena.
Anch’io, per tre volte, sono stato convocato per andare a fare esami medici in un vicino ospedale e, all’ultimo momento, mi è stato detto che l’appuntamento era stato cancellato perché quella mattina non c’erano scorte disponibili.
Infine, qualcuno potrebbe chiedermi perché quel detenuto ha cercato di suicidarsi. Non lo so, ma so dalle statistiche ufficiali che nel 2024 ben 71 persone detenute si sono tolte la vita, mentre nei primi sei mesi del 2025 siamo già a 38, un suicidio ogni cinque giorni, numeri che gridano vendetta, ma che non fanno rumore, perché chi muore in carcere, spesso, muore due volte, nella cella e nell’indifferenza collettiva.
Forse sarà il caldo estivo che si abbatte su turisti e cittadini in tutte le città italiane, ma fa impazzire i detenuti che non hanno riparo, nell’assoluta assenza di impianti di condizionamento (qui a Rebibbia possiamo acquistare di tasca nostra solo vecchi ventilatori da tavolo, non più di due per cella), in strutture murarie costruite senza nessuna coibentazione, nell’ammasso di persone presenti in ogni cella, spesso con docce che funzionano a intermittenza o senza acqua potabile (queste ultime cose, per fortuna, qui a Rebibbia non accadono).
Infine, parlando di Fabio Falbo, vi ho accennato alla costante violazione dei cosiddetti “percorsi trattamentali” che dovrebbero servire a rieducare e reinserire gradualmente nel mondo esterno le persone detenute.
Ebbene questi percorsi vengono paralizzati dalla carenza di personale incaricato di valutare questi percorsi nel carcere e di cancellieri nei vari tribunali di sorveglianza. A fronte di questo i giudici, invece di manifestare elasticità e sollecitudine, si chiudono in un atteggiamento di pignoleria e lentezza burocratica e di severità estrema nell’interpretazione delle leggi.
Al vertice di questo atteggiamento di chiusura c’è il Tribunale di sorveglianza di Roma, che sta accumulando migliaia di fascicoli arretrati, non permettendo di accedere alle pene alternative proprio mentre le carceri stanno scoppiando. Uno dei motivi di questo primato è il fatto che su Roma è stata concentrata la sorveglianza dei detenuti in massima sicurezza di tutta Italia, appesantendo il lavoro e ispirando a severità i giudizi.
Il nuovo presidente del Tribunale, dott.ssa Marina Finiti, ha sollecitato, senza molto successo, i suoi colleghi magistrati ad una maggiore elasticità, e da mesi mantiene un inutile carteggio con il ministero per coprire le carenze di cancellieri e assistenti del Tribunale che sfiorano il 30% dell’organico.
Un’ora dopo lo scompiglio provocato dal tentato suicidio di cui vi ho parlato, ho potuto salutare Mario, un altro detenuto del mio reparto mandato finalmente agli arresti domiciliari. Mario era stato arrestato a 81 anni (in teoria la legge prevede che dopo i 70 anni i detenuti avrebbero diritto alla detenzione domiciliare) per una condanna definitiva per reati finanziari di quindici anni prima. Dopo un mese e mezzo di carcere, finalmente sei giorni fa si è visto riconoscere dal tribunale di sorveglianza il diritto ad andare ai domiciliari.
Ma ci sono voluti sei giorni perché la decisione del tribunale fosse messa in pratica. E Mario per altri sei giorni è rimasto a languire nel mio reparto con le sue gambe piene di piaghe e di croste (non so per quale malattia) in bella vista sotto i calzoncini che pure lui doveva indossare per sopportare il caldo.
Mario non era il più vecchio del Braccio: in un altro reparto c’è tuttora Antonio, di 87 anni, anche lui in cattive condizioni di salute, che si è visto rigettare dal tribunale l’istanza per i domiciliari e ora attende l’esito del ricorso in Cassazione.
Ma il carcere non è solo questo girone dantesco: chi ha vissuto un periodo della sua vita “dietro le sbarre” è testimone di un’esperienza difficilmente comunicabile a chi invece il carcere non l’ha mai conosciuto. Nelle celle si vive un’intensa esperienza comunitaria, con i forti connotati romantici e spirituali propri di tutte le vicende comunitarie.
Tra i compagni di cella si condivide tutto, dalle derrate alimentari ai lavori quotidiani, dalle emozioni ai ricordi. Ai più anziani (di permanenza in carcere) viene riconosciuta piena autorità sulle regole comuni, a prescindere dai titoli di studio e dalle origini sociali, regole totalmente autogestite ma ferree per pulire gli ambienti, preparare i pranzi, lavare i piatti.
C’è un continuo lavoro artigianale di ogni detenuto per migliorare le condizioni di vita, a fronte di celle fatiscenti, ognuna con 6 brande a castello, un cesso che sta nella stessa stanza dove si cucina e un lavandino senza acqua calda, della mancanza di apparati di condizionamento quando fa caldo. Ogni pezzo di legno, ogni lattina, ogni elastico, viene utilizzato in modo geniale per risolvere qualche problema pratico di una vita a metà strada tra il campeggio e la caverna. Altro che “cultura del riuso” da ambientalisti chic, qui si fa sul serio.
In ogni cella c’è almeno un detenuto che, in base ad esperienze pregresse (in genere altro carcere), si improvvisa come cuoco, cucinando su fornelli camping gas quello che può essere riciclato dal vitto quotidiano o quello che viene acquistato come “sopravvitto”.
I risultati, soprattutto nelle celle dove vivono persone di origine calabrese, sono assolutamente al di sopra della media delle nostre case, dove ormai domina la cattiva abitudine dei cibi d’asporto.
Sono poche le persone detenute, anche quelle che all’entrata si presentano con un carattere individualista e aggressivo, che riescono a sottrarsi a queste regole. Le varie celle si uniscono in altri cerchi comunitari, che sono i reparti, i bracci e i singoli istituti penitenziari.
Vige la consuetudine di salutarsi sempre ogni volta che ci si incontra nei corridoi, all’aria, nella doccia, nelle sale comuni, quando ci si affaccia in un’altra cella. Ci deve essere assoluta cortesia reciproca, pena reazioni collettive anche pesanti.
Ogni attività del carcere è molto frequentata dalle persone detenute, certamente in cerca di modi per passare la giornata, ma anche molto attente a tutto quanto può far loro sperare di avere una vita migliore durante e dopo la carcerazione.
C’è voglia di partecipare, non di tutti, perché c’è anche chi si lascia andare e diventa un morto vivente. Ma questa voglia c’è e certe volte è sinceramente commovente. Ne sono testimoni tutti i volontari, i docenti e gli operatori esterni che cercano di organizzare le diverse attività.
Insomma, la natura comunitaria dell’esperienza carceraria permette di alimentare la speranza di quella “rieducazione” di cui parla l’art. 27 della Costituzione.
Proprio per questo è un peccato, e anche una vergogna, che le istituzioni preposte non riescano a valorizzare queste potenzialità, non dando coerenza e continuità ai percorsi che dovrebbero portare dalla rieducazione all’accesso alle pene alternative.
Non parliamo degli agenti della Penitenziaria, che sono vittime dei malfunzionamenti e delle carenze di organico quasi quanto le persone detenute. Parliamo di chi fa le leggi e di chi le deve applicare, che può e deve fare di più.
Io e Fabio Falbo non ci stancheremo di scrivere alle istituzioni e ai media per sollecitare una risposta immediata, concreta e adeguata a questa emergenza, risposta che non sono nuove carceri ma l’approvazione di un provvedimento di legge con il concorso trasversale di forze politiche provenienti da ogni schieramento.
Non un indulto o un’amnistia per le quali non solo sarebbe necessaria una maggioranza qualificata, ma bisognerebbe sfidare un’opinione pubblica giustamente preoccupata dai problemi della sicurezza e della certezza della pena; pensiamo, invece, a quella che è stata definita la “legge della buona condotta”, ovvero un provvedimento che preveda una “liberazione anticipata speciale” tale da aumentare lo sconto di pena già previsto quando i detenuti mantengono un comportamento giudicato irreprensibile dagli uffici di sorveglianza.
Su questa ipotesi si sono già svolti degli incontri politici che hanno coinvolto il presidente del Senato Ignazio La Russa, l’on. Roberto Giachetti, che ha depositato una proposta di legge in questo senso, e l’on. Rita Bernardini, presidente dell’Associazione “Nessuno Tocchi Caino”, che sta conducendo proprio in questi giorni uno sciopero della fame per richiamare l’attenzione sull’emergenza carceri.
Contro il dramma del sovraffollamento ha fatto sentire il suo monito, anche recentemente, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, mentre Papa Francesco, fino agli ultimi giorni della sua vita, ha dimostrato in tutti i modi la Sua vicinanza alla popolazione detenuta e alzato la sua preghiera per ottenere dalle istituzioni un provvedimento di clemenza.
Noi non chiediamo impunità, chiediamo umanità, non chiediamo semplice clemenza, chiediamo giustizia, anche perché nessuna pena può diventare tortura, perché nessuna cella può diventare una tomba, perché nessuna persona mai dovrebbe essere trattata come meno di un essere umano.
Roma, Rebibbia, 1 luglio 2025
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