Esponente della comunità ebraica newyorkese di origine sudafricana, Peter Beinart consegna agli ebrei una proposta di cambiamento ispirata a quella terra
Essere ebrei dopo la distruzione di Gaza (Baldini+Castoldi, 2025) è un atto d’accusa coraggioso e sofferto, opera di un ebreo credente, consapevole dello scandalo che esso avrebbe suscitato. Il libro di Peter Beinart è indirizzato alla comunità ebraica newyorkese, americana, mondiale e in particolare agli ebrei in Israele.
Per orientarsi tra le arroventate polemiche sulla guerra di Gaza e sulla politica di Israele il saggio di Beinart rappresenta un punto di paragone illuminante. Il titolo è volutamente assertivo, ma nel testo si aggira un dubbio radicale, ovvero se si possa continuare ad essere ebrei dopo la distruzione di Gaza. La preoccupazione dell’autore è seria ed è rivolta ai giovani membri delle comunità ebraiche di tutto il mondo, iniziando dagli studenti americani, a cominciare dai suoi figli adolescenti.
Beinart è un membro di spicco della comunità ebraica newyorkese e della comunità scientifica internazionale con origini sudafricane, un elemento quest’ultimo rilevante, considerate sia le accuse di apartheid, suprematismo razziale, colonialismo, tribalismo e genocidio mosse a Israele dall’autore, sia l’utopica (rebus sic stantibus) via d’uscita da lui stesso auspicata.
Guardare alla guerra di Gaza con le lenti sudafricane è una caratteristica distintiva del lavoro di Beinart. I suoi ricordi sudafricani aprono e chiudono il libro e ne rappresentano le pagine più belle, significative e intense. “È cominciato tutto durante quegli stessi pasti dello Shabbat a Città del Capo quando iniziai a prendere in considerazione chi altro era presente in casa con noi.
Chi si aggirava al margine in cucina o nel giardino, chi si occupava delle mansioni servili. Erano persone legalmente inferiori, cosa che mi dicevano essere necessaria perché se avessero potuto ci avrebbero ucciso, il loro esercito del terrore nero nascosto chissà dove, stava pianificando il nostro assassinio”.
Nel suo breve ma ultra documentato lavoro Beinart si focalizza sul ribaltamento di alcuni paradigmi che connotano autocomprensione e autorappresentazione dell’identità ebraica antica e moderna.
Uno su tutti l’ebreo (vittima) delle nazioni. Un paradigma che distorce la prospettiva dentro la quale i fatti vengono visti o non visti, analizzati o scartati, compresi o interpretati pregiudizialmente. Uno dei capitoli del libro si intitola significativamente Modi di non vedere. Modi di non vedere il proprio non essere sempre e solo vittime, ma anche oppressori, il proprio non essere solo schiavi, ma anche padroni.
In poche pagine Beinart fa correre la riflessione del lettore dal Libro di Ester, sul quale si fonda la festa di Purim, alla strage del villaggio palestinese di Deir Yassin (aprile 1948), dalla versione ufficiale israeliana dell’esodo palestinese all’analisi delle statistiche contrastanti sui nefasti bilanci della guerra, per fissare il focus sulla confusione tra ebraismo e sionismo e sul processo di disumanizzazione: dapprima subita dal popolo ebraico e ora inflitta a quello palestinese.
“Il libro di Ester – chiosa l’autore – non si conclude con la morte di Amman (…) ‘I giudei colpirono il loro nemici a colpi di spada (…) uccidendoli e sterminandoli; fecero dei nemici quello che vollero’. Il tredicesimo giorno del mese di Adar, gli ebrei uccidono settantacinquemila persone. (….). Purim non parla soltanto della minaccia dei gentili nei nostri confronti. Ma anche della minaccia che noi rappresentiamo per loro”.
Tornando alla guerra arabo-israeliana, Beinart ribalta il paradigma in uso per la lettura dell’esodo palestinese da parte israeliana ed ebreo-americana: “quando i leader ebrei sostengono che sono state le invasioni arabe a causare l’esodo palestinese, invertono l’ordine di causalità”. L’esodo di 750mila palestinesi nel 1948 fu l’effetto per il 70 per cento degli attacchi sionisti, e solo per il 5 per cento delle direttive degli Stati arabi. La fonte è un rapporto del 1948 dei servizi segreti israeliani.
Il massacro del villaggio di Deir Yassin ad opera delle forze militari sioniste precede di un mese l’entrata in guerra degli Stati arabi avvenuta il 14 maggio 1948: non è l’effetto della guerra dichiarata dagli arabi, ma della volontà sionista di “liberare” un territorio abitato all’ 80 per cento da arabi. I tre episodi citati sono solo un assaggio delle decine di situazioni attuali e storiche analizzate dall’autore.
La ricapitolazione dell’esperienza ebreo-palestinese sulla base dell’esperienza sudafricana nella quale la popolazione bianca – ebrei compresi – ha utilizzato l’imperativo-sicurezza e la paura di essere sterminati e gettati a mare per giustificare l’apartheid e il suprematismo, permette a Beinart di poggiare l’utopia della costruzione di uno Stato unico di Palestina-Israele sulla realtà storica dell’attuale Sudafrica: tanto reale ora quanto era stata impossibile prima.
Il libro si conclude con le righe che riporto di seguito: “Quando il team legale sudafricano – un nero, un bianco, un africano, una musulmana, protetta da un giudice ebreo della Corte Suprema del suo paese – hanno denunciato Israele presso la Corte internazionale di giustizia, ho avuto la sensazione che non stessero solamente provando a interrompere un genocidio. Era un passaggio di testimone (…) Come uno strumento per perseguire la giustizia in tutto il mondo. (…) Forse è questo che significa oggi per il popolo ebraico benedire l’umanità. Significa liberarci dal suprematismo e contribuire, assieme ai palestinesi, a liberare il mondo”. Forse è questo che significa per Peter Beinart essere ebrei dopo la distruzione di Gaza.
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