Erik Varden, monaco trappista e vescovo norvegese, per la prima volta al Meeting, ci invita a non perdere la "fame di senso, di bellezza e di amicizia"
Il norvegese Erik Varden, 51 anni, vescovo di Trondheim e presidente della Conferenza episcopale della Scandinavia, parla della sua esperienza di monaco e di pastore, indica un cammino di speranza e si mostra ottimista sul “ritorno della fede” tra i giovani.
Il titolo del Meeting è la frase di Eliot “Nei luoghi deserti costruiremo con mattoni nuovi”. Nella sua esistenza non è forse accaduto qualcosa di simile? Cioè dal “deserto” degli anni giovanili – i suoi genitori erano lontani da una pratica religiosa – è arrivato a poco più di vent’anni alla fede cattolica. Si può dire che la sua vita è ricominciata costruendo con mattoni nuovi?
Sì, ma in un certo senso è la storia di ogni vita cristiana. Occorre accortezza, fare in modo che i mattoni, che siamo noi, arrivino alla giusta cottura, per divenire qualcosa di utile. Effettivamente, riguardo alla mia vita, c’e stata una preparazione assolutamente gratuita della Provvidenza a un compito, e spero che il grande Costruttore vegli perché in me la forma da Lui desiderata rimanga e sia perfezionata.
Lei, monaco della stretta osservanza cistercense, da qualche anno è anche pastore, con la responsabilità di una diocesi ma anche presidente della Conferenza episcopale della Scandinavia, che comprende cinque Paesi. Cosa vuol dire per un monaco, che ha un certo tipo di vita – il silenzio, il raccoglimento, la preghiera – avere questa responsabilità pastorale così impegnativa?
Prima di essere nominato vescovo, ero abate nel monastero di Mount Saint Bernard, in Inghilterra: si trattava di un ministero molto pastorale, e avevo in quel contesto responsabilità anche oltre la nostra casa, a livello dell’Ordine. Ero quindi pronto. Sicuramente adesso ci sono elementi che sono in contrasto con la vita regolare conventuale: c’è meno stabilità, meno silenzio. Come compensazione ho l’occasione ora di praticare l’obbedienza in modo molto più radicale.
La sua consacrazione episcopale è avvenuta il 3 ottobre 2020 a Trondheim nella cattedrale luterana di Sant’Olav. Un evento storico, perché è stato il primo ad essere ordinato vescovo di Santa Romana Chiesa dopo la Riforma protestante in quella che un tempo era una cattedrale cattolica. Come si spiega?
Semplice. Era il tempo del Covid, la cattedrale medievale era molto più grande e sicura di quella cattolica, ugualmente intitolata a Sant’Olav e più recente, e quindi potevano partecipare in sicurezza più persone. Quindi abbiamo accolto la proposta generosa della comunità luterana. La cattedrale è molto antica, la sua costruzione è stata progettata nel 1031, un anno dopo la morte del santo re Olav, ed era il centro della provincia ecclesiastica che comprendeva Norvegia, Groenlandia, Islanda, Isole Shetland, Isole Orcadi, e andava fino all’Isola di Man: quindi c’era anche una continuità storica in quel gesto.
C’è una ripresa della fede cattolica nei Paesi dell’Europa del Nord. In particolare in Norvegia i cattolici restano un’esigua minoranza, ma crescono i battezzati. Sono “mattoni nuovi”?
Sì, è vero, c’è una certa crescita, la definirei una stagione primaverile. In termini numerici è dovuta principalmente all’immigrazione. La nostra realtà è estremamente internazionale. Nella mia diocesi ci sono immigrati provenienti da ben 130 Paesi, e molti di loro sono cattolici, altri chiedono il battesimo.
Il ritorno inaspettato della fede, soprattutto tra i giovani, avviene in un mondo che pensavamo si stesse allontanando da Dio…
Quindi rallegriamoci (ride di cuore). Ma perché inaspettato? Se uno guarda con un po’ di attenzione la storia della Chiesa durante duemila anni, c’è sempre stato questo anelito: il cuore umano e l’intelligenza umana non perdono mai quella fame di senso, di bellezza e di amicizia, che cerca punti di riferimento per orientarsi.
Al Giubileo dei giovani c’e stata una partecipazione viva. Una grande speranza. Ma come accompagnare questi ragazzi che hanno sete di Dio ma facilmente rischiano di perdersi?
Dando loro la testimonianza di una vita pienamente umana, felice e libera, perché la libertà è un termine biblico chiaro, sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento, e ognuno porta in sé la sete di essere davvero libero. Conta l’incontro; una persona che incarna, che vive un’autentica libertà interiore, ha un potere contagioso benefico, irresistibile.
La torre di Babele è la tentazione ricorrente dell’uomo di farsi Dio. Come facciamo a capire che i mattoni nuovi con cui stiamo costruendo dove c’è il deserto siano mattoni fatti dell’argilla di Dio, cioè come facciamo ad evitare il rischio di una nuova Babele, anche quando l’intenzione è buona?
La tentazione della torre di Babele c’è sempre stata, appartiene alla storia dell’uomo sin dai tempi più antichi: è il tentativo luciferino di volersi mettere al posto di Dio. Per questo è importante mantenere allo stesso tempo l’umiltà – con i piedi ben piantati in terra – e tenere gli occhi alzati verso il Cielo, il cuore aperto verso il prossimo e l’intelligenza illuminata dall’insegnamento di Gesù Cristo, nella determinazione di seguire il suo esempio.
Quindi la fede cristiana correttamente vissuta si traduce in un sano realismo?
Sì. Il cristiano vero rifugge da ogni utopia.
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