MARY GAUTHIER/ “Dark enough to see the Stars”: quando le stelle escono dal buio

- Lorenzo Randazzo

Mary Gauthier torna con un nuovo affascinante disco, in cui il dolore della vita fa i conti con la luce di Dio

mary gauthier suona a cantu sul palco con il volinista gazich df281646 588f 11e4 81f9 72fc69b7a479 640x300 Mary Gauthier

Nel pieno della notte due grandi stelle illuminano una piccola barca in un oceano nero e profondo. Così si presenta la copertina del nuovo atteso album di Mary Gauthier disegnata da Gail Marowitz e ispirata dal brano Dark enough to see the Stars che dà anche il titolo al disco.

Abbiamo imparato a conoscere la storia drammatica della cantautrice di Nashville grazie alla sua ricca produzione musicale e alla recente autobiografia Saved by a Song. Arrivata ad un passo dall’abisso, Mary Gauthier fin dalla nascita ha sempre sofferto: l’abbandono della madre naturale e la separazione dei genitori adottivi, l’omosessualità e la difficoltà di gestire un rapporto di coppia, la dipendenza da droga e alcol e la frequentazione forzata di centri di riabilitazione e del carcere. Dopo una spirale discendente di eccessi e di dipendenze, Mary prende coscienza di poter essere utile al mondo grazie alla musica e di poter contribuire a dare sollievo alle persone partendo dal proprio vissuto.

In Dark enough to see the Stars il dolore e la sofferenza non vengono censurati ma è il sentimento di gratitudine a prevalere. Nella lettura dei testi la speranza e la positività vincono l’odio e il rimpianto, è come se la Gauthier avesse maturato la consapevolezza che tutta la strada compiuta finora sia stato un percorso necessario per giungere allo stadio di serenità attuale.

Il disco, prodotto da Neilson Hubbard degli Orphan Brigade, nonostante le numerose collaborazioni, si presenta con arrangiamenti molto essenziali tanto che le melodie giungono con semplicità all’ascolto. La canzone che apre l’album è un folk rock piacevole, Fall Apart World, realizzato con Ben Glover. La successiva Amsterdam, con i cori in risalto, è un motivetto diretto e molto orecchiabile scritto con la sua compagna Jaimee Harris e fa riferimento all’ultimo tour europeo pre-pandemia. Nonostante gli stop dei concerti dal vivo per via del Covid, Mary Gauthier ha sempre continuato ad esibirsi sui suoi social con dirette domenicali (Sundays with Mary) arricchite di volta in volta da ospiti d’eccezione. In Thank God for you contrappone la sua vita precedente “Spent my life running from the ghosts of the Vieux Carré” con l’attuale stato di gratitudine, “I thank God for you, I wake up in the morning and I thank God for you”. How could you be gone è un brano intenso, impreziosito dalle note di violino del nostro Michele Gazich, che tratta ancora una volta il tema della perdita e del distacco a cui non ci si riesce dare pace. Lo smarrimento continua con Where are you now in cui la domanda si fa più intensa. La canzone che dà il titolo all’album è stata scritta diversi anni fa con Beth Nielsen Chapman e poi riadattata durante “i giorni bui della pandemia” dopo la perdita di diversi cari amici. “C’è un qualcosa legato al dolore che porta chiarezza.” Il titolo è ispirato da un discorso di Martin Luther King: “I guai sono nella terra, la confusione dappertutto. Ad ogni modo io so che soltanto quando è abbastanza buio si possono vedere le stelle”.  Come dire, non puoi vedere, o meglio, è più difficile vedere quando tutto è normale, quando tutto va bene, quando c’è la luce che nasconde tutto. Serve il buio, serve la notte per poter vedere le stelle, per vedere il bello.

Quando si sa guardare, quando si sa aspettare, sono le cose stesse ad uscire dal buio. A quattro anni dallo splendido Rifles & Rosary Beads realizzato con i veterani di guerra, The Meadow tratta ancora una volta il tema dei reduci dal fronte e nello specifico è ispirata alla lettura di un libro “Some go home” che narra il ritorno a casa di una soldatessa dall’Iraq e della sua necessità di essere compresa e perdonata “in need of forgiveness and the grace of God”. La vita on the road è raccontata in Truckers and Troubadours, un country waltz indolente su chi sceglie di vivere di musica (“Sometimes it’s heaven, sometimes it’s hell”). Anche About time, che parte dalla chitarra acustica della sola Mary e si conclude full band, riflette con tenerezza sul tempo che passa durante i tour lontano dalle persone care.  La conclusiva Till I see you again è una preghiera laica rivolta a chi non c’è più (“May you rest in gentle arms till I see you again”) che rimanda alla celebre Forever Young di Bob Dylan

Dark enough to see the stars è un altro capitolo importante della produzione artistica e della crescita personale di Mary Gauthier. Quando le stelle escono dal buio, bisogna solo guardare. E ascoltare.







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