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Home » Musica e concerti » STEVE WINWOOD/ Pordenone Blues Festival: “Noi facciamo musica vintage”

  • Musica e concerti

STEVE WINWOOD/ Pordenone Blues Festival: “Noi facciamo musica vintage”

E' partito con grande successo il Pordenone Blues Festival con un mito della musica, Steve Winwood, con un concerto all'insegna del vintage. La recensione di WALTER GATTI

Walter Gatti
Pubblicato 21 Luglio 2017
steve-winwood_cs

Steve Windwood

“Scusateci, ma noi facciamo musica vintage”: sorridente, umile e simpatico, Steve Winwood ha presentato così il suo concerto al Pordenone Blues Festival, una delle rare date che questo musicista britannico 69enne offre al pubblico italiano. Doveva essere musica “vintage” (traducetelo come volete: musica d’annata; vecchia, ma elegante; efficace ma un po’ retro….) e così è stato, ma dove il sostantivo definisce più che altro un sound elettrizzante che ha radici in altre epoche, quando le collaborazioni erano autentiche e stellari, dove le contaminazioni non erano elettroniche e dove le ispirazioni erano veraci e sanguigne, senza troppe mediazioni discografiche e radiofoniche.


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Nei 100 minuti di concerto Winwood ha attraversato circa cinque decenni di musica, cantando con una voce roca e inconfondibile (Ray Charles è il suo mito), portando sul palco una manciata di canzoni eccellenti, esprimendo al meglio la sua anima che è equamente posizionata tra il soul e il rock-blues, con fortissime influenze che derivano dalla musica caraibica. L’inizio vibrante della serata (in un magnifico teatro Verdi affollato ed esaurito: un gioiello dall’acustica perfetta) è stato affidato alla psichedelia bluesy di I’m a Man, uno dei brani storici dello Spencer Davis Group, la band di Birmingham in cui aveva esordito il quattrordicenne (gli archivi storici dicono che Winwood era un ottimo studente, senza troppe deviazioni giovanili: tutto scuola, casa e strumenti musicali…) Steve in piena epoca pop.


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La serata si è sviluppata in un mix di brani dalle due grandi formazioni in cui Winwood ha militato, Traffic e Blind Faith (e peccato che il britannico non abbia mai tempo e voglia di ripescare brani dal periodo folle dei Go, altro supergruppo composto da lui con Stomu Yamashta, Michael Schrive e Al Di Meola): Had to Cry Today, Empty Pages, The Low Spark of High Heeled Boys, che confermano l’incapacità del tempo di scalfire i grandi successi dei Traffic.

Prevedibilmente i brani più rilassati e pop della serata, Fly e la solare Higher Love (quest’ultimo brano numero uno della classifica Billboard nel 1986), sono quelli che vengono dalla carriera solista di Steve Winwood, sprazzi di morbidezza all’interno di un’atmosfera complessiva che risulta sempre elegante anche quando si fa sanguigna e abrasiva. Forse il vertice interpretativo ed emozionale lo raggiunge nella ennesima riproposizione di Can’t Find My Way Home. Per la prima volta durante lo show, il britannico abbandona l’Hammond di cui è maestro assoluto per passare alla chitarra elettrica, e qui (anche senza Clapton, a cui questa canzone è indissolubilmente legata) la magia dei Blind Faith si compie come alla fine degli anni ’60, in quel canto di furba incertezza (“continuo a non riuscire a trovare la strada di casa, e non ho fatto niente di male, ma non riesco a trovare la strada di casa…..”) che fotografava più di mille trattati di pensiero il sentimento del vivere di un mondo giovane e anarchico.


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Grandi canzoni, suono dominato dall’organo Hammond di Winwood, ma verve spettacolare per tutto lo show. La band che ha affiancato Steve è ormai una sua compagnia rodata ed la stessa già vista quasi un decennio fa a Milano. José Neto (chitarre) e Richard Bailey (batteria) sono “comprimari” extra-lusso: entrambi cresciuti in un ambiente tropical-jazz, portano una potente ventata di sound che sfiora il Brasile per affondare le radici nel jazz. Edwin Sanz è un percussionista funambolico, mentre Paul Booth (ultimo arrivato: aggregato al Winwood-team dai tempi di Nine Lives) è il polistrumentista perfetto, il tipo di musicista che passa con nonchalance dagli ottoni alle tastiere, una sorta di Chris Wood in formato contemporaneo.

Il bis è riservato a due dei brani più attesi: Dear Mr Fantasy (con Winwood in grandissimo spolvero alla chitarra solista) e una veemente Gimme Some Lovin. Applausoni finali di un pubblico che ha così salutato l’avvio di un festival – il Pordenone Blues – sempre più quotato ed efficace. Qualcuno dalla platea ha chiesto a gran voce “suonaci John Barleycorn”. Chi scrive ha pensato anche a Glad, Freedom Rider e Keep on Running, ma le luci si sono spente e la “serata vintage” è stata ugualmente perfetta.

Tags: Pordenone


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