OPERA/ La nuova Carmen a Roma, la scommessa vinta da Bubeniček, Bonolis e Abbagnato

- Giuseppe Pennisi

È andata in scena in prima mondiale al Teatro dell’Opera di Roma una Carmen “rivisitata” da Jiři Bubeniček e Gabriele Bonolis

Carmen Bubeníček Yasuko Kageyama1280 640x300 Una scena del balletto (foto di Yasuko Kageyama)

La Carmen firmata da Jiři Bubeniček, un coreografo della Repubblica Ceca che iniziò la carriera come atleta in un circo equestre della sua famiglia, non è la riproposizione in balletto dell’opera di Georges Bizet su libretto di Meilhac e Halévy. Lo fu una trentina di anni fa la Carmen di Antonio Gades e Carlos Sauras che ha fatto il giro dei cinque continenti e da cui è stato tratto anche un film. Non segue neanche i passi de La tragédie de Carmen di Peter Brook creata a Les Bouffes du Nord di Parigi e che si è vista un quarto di secolo fa al Festival dei due mondi a Spoleto: utilizza parte della musica di Bizet, ma fonde il libretto con spunti dalla novella originale di Prosper Mérimée.

È una Carmen nuova di zecca che ha debuttato il 2 febbraio in un Teatro dell’Opera di Roma colmo in ogni ordine di posti, nonostante la serata piovosa e fredda, da un pubblico non solo curioso ma pronto a reagire a cosa avrebbe osato un coreografo che in gioventù lavorava in un circo. Al levar della bacchetta in buca – dirigeva Louis Lohraseb conosciuto in America ma poco noto in Italia – e del sipario sulla scena, i fucili erano metaforicamente puntanti. Silenzio quasi assoluto per due ore e un quarto (intervallo compreso). Al calar del sipario, un’esplosione non di applausi ma di ovazioni per dieci minuti. Jiři Bubeniček, e il curatore dell’arrangiamento musicale, Gabriele Bonolis avevano vinto la scommessa.

Cos’è questa Carmen? In primo luogo, segue abbastanza rigorosamente la novella di Mérimée; elimina, quindi, personaggi che sono fondamentali nell’opera di Bizet, come Escamillo e Micaela e ne introduce altri come il marito della protagonista Garcìa e un ricco viscido e lussurioso Generale britannico. In secondo luogo, parte dalla fine come nella novella: l’esecuzione di Don José per impiccagione e il suo ricordo, negli ultimi minuti di vita, della vicenda che lo ha trasformato da un giovane di campagna intenzionato a diventare prete, in un soldato e in pluriomicida.

La trasformazione di Don José è il punto centrale del romanzo di Mérimée. Carmen è una cavalla impazzita che nessuno, neanche il marito, tenta più di domare o addestrare. I suoi soli obiettivi sono il sesso – trova tanto gustoso il giovane soldatino – e il denaro – la soddisfano in proposito i superiori di José ed il Generale britannico. Mérimée in persona è a Siviglia e osserva, prendendo appunti, il dipanarsi dell’intreccio. L’accento è quasi più su José (Amar Ramasar) che su Carmen (Rebecca Bianchi). Da giovane timido conosce l’eros e i tradimenti, si associa a trafficanti e uccide a coltellate il marito di Carmen, il proprio tenente e la femme fatale che lo ha rovinato. L’azione è rapida, la coreografia acrobatica, le scene (Gianni Carluccio) e i costumi (Anna Biagiotti) funzionali ed efficaci.

L’aspetto più innovativo è la partitura. Viene utilizzata in buona misura quella di Georges Bizet, ma ri-arrangiata e fusa con brani di Manuel de Falla, Isaac Albéniz, Mario Castelnuovo-Tedesco e Gariele Bonolis. Bonolis ha curato le fusion dei vari brani e ha orchestrato di nuovo il tutto, dando un senso di unità e di coesione. Si ascoltano, ad esempio, l’introduzione di El Amor Brujo e lo “Ataceder” di El Sombrero de Tri Picos di De Falla e la magnifica Siciliana per flauto e chitarra di Castelnuovo-Tedesco senza il flusso orchestrale abbia soluzioni di continuità. L’abilità del maestro concertatore e dell’orchestra hanno indubbiamente merito nel successo dell’operazione che è in gran misura un mirabile pastiche come quelli confezionati da Händel (e altri) in epoca barocca. La musica è densa di tensione e avvince gli ascoltatori

Ottimo il cast e il corpo di ballo. Eleonora Abbagnato sta portando una vera rivoluzione al Teatro dell’Opera.





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