Ieri è scomparso Nicola Pietrangeli (1933-2025), leggenda del tennis italiano e internazionale. Un modo più “umano” di oggi di affrontare lo sport e la vita
L’importanza di chiamarsi Chirinsky. Nome russo di cui è impresa vana trovare il significato nei motori di ricerca. Forse perché non esiste e nel settembre 1933 venne coniato apposta, preveggenza della madre per metà russa e per l’altra danese e del padre mezzo napoletano e mezzo abruzzese, per identificarne la futura unicità sportiva. Una mescolanza di radici italo-europee, cui si aggiunge il luogo di nascita, Tunisi (allora protettorato francese), che dovette contribuire non poco a plasmare un personaggio fuori dagli schemi. Sui campi da tennis come nella vita in generale.
Famosa la sua dichiarazione rilasciata diversi anni fa alla stampa: “Quando mi dicevano che allenandomi meglio avrei potuto vincere di più, io rispondevo: forse, ma nella vita mi sarei divertito meno”.
Nicola Pietrangeli faceva parte della categoria “o mi ami o mi odi”. Divisivo perché vincente, ma anche perché un poco sbruffone e molto supponente. Da un lato il suo palmarès, che faceva (e ancora fa) invidia a chiunque cerchi di guadagnarsi da vivere con la racchetta in mano: 687 partite vinte (quasi due su tre), una medaglia d’oro e due d’argento in Coppa Davis (quando era la regina del tennis internazionale), due centri al Roland Garros, primo italiano a vincere uno Slam (anno 1959) e molto, molto altro che per farne l’elenco occuperemmo tutto lo spazio a disposizione.
Dall’altro un altro genere di palmarès, quello delle prime pagine sui giornali e che oggi definiremmo di gossip: un’intervista di quattro anni fa elencava le sue frequentazioni con Marcello Mastroianni, Liz Taylor, Frank Sinatra, il principe Ranieri di Monaco (al quale pare abbia impartito lezioni di tennis in cambio del trasferimento di residenza a Montecarlo) e anche qui potremmo dilungarci oltre misura.
Tanto tempo trascorso a buttare la pallina oltre la rete e forse anche di più a rincorrere le luci della mondanità: in quale delle due realtà si sia divertito di più è difficile sapere, ma un sospetto l’abbiamo. Per questo sosteneva il primato del divertimento sopra la fatica, convinzione che oggi – i soldi non danno la felicità, ma aiutano molto – udiamo sostenere da ben pochi e nella fattispecie sportiva forse soltanto da Jannik Sinner.
Certo, la fatica di lunghi allenamenti in palestra e all’aperto, assunta a suo dire senza mai andare “fuori campo”, era propedeutica alla presenza sui rotocalchi accanto a uomini famosi e belle donne, ma insomma uno che si chiamava Chirinsky aveva il destino segnato. Vinceva nello sport e sul jet set negli anni in cui l’Italia si stava rimettendo finalmente sulle gambe dopo la bufera della guerra, calcio e ciclismo infiammavano le masse più del tennis, “disciplina per soli ricchi” ma proprio per questo tenuta in palmo di mano, il mondo della comunicazione era ancora in bianco e nero al cinema e in tv e il nome Pietrangeli faceva sorridere, tutto sommato, solo un’élite di appassionati, ma erano quelli con la “grana”.
Pietrangeli aveva il pregio indiscusso di esaltare ovunque gli italici colori e le numerose escursioni extra-sportive giovavano comunque alla causa di un Paese che mostrava al resto del mondo i suoi gioielli, come a dire: il futuro è tutto mio.
Quanto al “caratterino” (da Panatta a Sinner gli scontri dialettici non si contano, specie col tennista romano, fatto della sua stessa pasta – e si sa che due galli nel pollaio finiscono col prendersi a beccate in testa –, mentre l’astro altoatesino è troppo educato per battibeccare), faceva parte del personaggio “bello e impossibile”: del resto, da uno che – probabilmente solo al mondo – si chiamava anche Chirinsky cosa potevamo aspettarci?
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