In Libano sono ripresi i raid israeliani contro Hezbollah, mentre a gaza la situazione appare in bilico: qualcuno vuole una spartizione della Striscia
Non solo Gaza. In Libano sono ripresi (se mai fossero finiti) i raid israeliani contro le postazioni di Hezbollah. Tante le scuole chiuse in alcune regioni della provincia di Tiro e a Nabatieh, nel sud del Paese, fortemente colpite dall’aviazione israeliana e da numerosi droni. Svariati gli ordini di evacuazione anche nella provincia di Bint Jbeil.
I motivi israeliani sono stati chiariti in un messaggio: l’esercito libanese non starebbe impegnandosi a sufficienza per disarmare Hezbollah, le milizie sostenute dall’Iran che starebbero ricostituendo il loro arsenale, in violazione del cessate il fuoco raggiunto lo scorso anno.
Nelle ultime settimane – ha affermato un ufficiale israeliano – Hezbollah ha contrabbandato centinaia di razzi dalla Siria al Libano, ha rimesso in condizione di operare i lanciamissili danneggiati nei combattimenti con Israele e ha arruolato migliaia di nuove reclute. Così, “senza un’azione significativa, Israele continuerà ad attaccare con la forza”.
Oggi il Libano ha intere zone simil-Gaza, ovvero ridotte a macerie. Secondo le stime del governo libanese, il materiale di risulta post bombardamenti, da smaltire al più presto, consisterebbe tra i 50 e i 100 milioni metri cubi. Ma non è esattamente una novità, per il Paese dei cedri. Se si escludono altre borderwar, la sola Israele ha già invaso il Libano più volte, sempre per contrastare i gruppi armati filoiraniani, come Hezbollah, che di fatto controllano buona parte dello Stato.
Vanno ricordate almeno le operazioni più devastanti: la Litani del 1978, contro l’OLP, che portò all’occupazione di una porzione di territorio, durata fino al 2000; l’operazione Pace in Galilea del 1982, sempre diretta contro l’OLP ma anche per limitare le penetrazioni della Siria, con migliaia di vittime, comprese quelle del tragico massacro nei campi profughi di Sabra e Shatila, periferia di Beirut, compiuto da milizie libanesi cristiane, mentre le forze israeliane circondavano l’area.
Proprio l’invasione israeliana del 1982 favorì la nascita di Hezbollah, il gruppo organizzato definitivamente nel 1985, sostenuto dall’Iran sciita; per arrivare poi alla seconda guerra del Libano, nel 2006, scaturita dal rapimento da parte di Hezbollah di due soldati israeliani e dall’uccisione di altri tre. Una serie infinita di bombardamenti che guerra dopo guerra hanno contribuito alla fuga di migliaia di abitanti, devastati dalle continue incertezze, e alla riduzione in macerie e polvere di porzioni sempre più ampie di territori.
Non solo Gaza, dunque: il Medio Oriente resta ancora in bilico, quasi sotto le fragili ceneri covassero braci irriducibili, sempre pronte ad infiammarsi al primo soffio.
Adesso i Paesi arabi stanno opponendo forti resistenze alla proposta sostenuta dagli Stati Uniti (soprattutto da Jared Kushner, genero di Trump) di ricostruire una “nuova Gaza” esclusivamente nella metà dell’enclave attualmente sotto il controllo di Israele. Si teme che la mossa possa portare a una divisione permanente del territorio palestinese, che forse alcuni imputano alla eco-geopolitica trumpiana, quella commistione che vede le ragioni del business alla base delle strategie di postura diplomatica, dai dazi alla “Gaza Riviera”, al rilancio dei Patti di Abramo, allo schieramento di forza al largo del Venezuela.
Dall’entrata in vigore del cessate il fuoco, Gaza è divisa dalla Linea gialla: Israele controlla una metà del territorio, Hamas l’altra, dove vive la maggior parte della popolazione palestinese. Su entrambe è necessaria una radicale ricostruzione, ma Israele e Washington hanno escluso che i fondi possano essere destinati alla porzione controllata da Hamas. “Non possiamo avere la frammentazione di Gaza. Gaza è una e parte dei Territori Palestinesi”, ha detto però il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi. Ecco quindi delinearsi una nuova frizione tra palestinesi, egiziani, qatarioti, turchi, Stati Uniti e Israele.
Ma la Turchia attualmente è anche particolarmente invisa al governo Netanyahu: l’ufficio del procuratore capo di Istanbul ha emesso mandati d’arresto contro 37 funzionari israeliani. Una mossa che sarebbe solo l’inizio della ricerca da parte della Turchia degli autori di quelli che dice siano atti sistematici di genocidio e crimini contro l’umanità a Gaza, ma molti sostengono che sarebbe anche la risposta alla decisa opposizione di Israele a lasciare che le forze turche operino a Gaza.
Tel Aviv sta anche affrontando la polemica sulle dimissioni della maggiore generale Yifat Tomer-Yerushalmi, l’ex capo avvocato generale militare dell’IDF, la funzionaria legale responsabile dell’interpretazione del diritto internazionale e del rispetto delle sue condizioni, che ha svolto un ruolo centrale negli ultimi due anni nell’autorizzare la condotta brutale dei militari nella Striscia di Gaza.
Resta poi aperta anche la questione della forza di stabilizzazione internazionale che dovrà prendere il controllo sulla Striscia, e che dovrebbe avere – secondo Trump – la vidimazione dell’ONU. Ma si procede a rilento, mentre rapide sono arrivate le defezioni di molti Paesi contattati, quelli arabi compresi: loro meglio di tutti sanno bene che mandare truppe nell’area sarebbe iniziativa buona e giusta, ma assolutamente pericolosa, specie se priva di garanzie, chiare regole d’ingaggio, protezioni estese. Tutti requisiti che da qualsiasi palazzo di vetro magari si promettono, ma che nella realtà di quella polveriera nessuno potrebbe assicurare.
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