Un libro riprende il testo della canzone "Piccola volpe": amare è lasciar andare senza volere il ritorno di qualcuno. Ma non è così che si trova la felicità

Qualche mese fa è uscito un libro per bambini e grandi con il testo della canzone Piccola Volpe dei Pinguini Tattici Nucleari.

Sulla pagina di Amazon ho letto che è un libro sulla libertà e sul consenso ed è consigliato ai bambini dai tre anni in su. Sono rimasta molto turbata perché Piccola Volpe, a differenza della bellissima Migliore, dedicata a Giulia Tramontano, canta a una piccola volpe indicandole di andare dove vuole, basta che vada. Le dice che amare una volpe è non volerne il ritorno e infine di andare dove vuole e che non verrà cercata.



Mai leggerei queste balle a un grande, figuriamoci a una bambina piccola che è in uno di quei momenti propri della vita in cui ha bisogno solo che qualcuno si prenda cura di lei.

Sia chiaro, la libertà e il consenso sono temi che mi stanno molto a cuore. Come il tema degli uomini a metà che vogliono ingabbiare, fino ad arrivare a violentare o a uccidere, una vittima. C’è una linea sottilissima tra questi temi, lo so. E quello che so per certo è che è veramente solo una questione di libertà, cioè di amore.



Solo che in questa canzone non c’è libertà, non c’è amore. E ha colpito malamente le corde del mio cuore.

Ho avuto la fortuna di avere due genitori che fin da quando sono nata mi hanno sempre preso per mano. Quella mano che ora guardo: “Sembra quella di suo padre (e sua madre) quando da bambino lo prendeva come niente e lo sollevava su. Era bello il panorama visto dall’alto. Si gettava sulle cose prima del pensiero. La sua mano era piccina, ma afferrava il mondo intero” (Fango, Jovanotti).

Una mano data poi nelle mani di maestri, professori e amici che mi hanno insegnato anche loro ad afferrare il mondo intero. E da qui è nato il mio lato canarino addomesticato. Quel “canarino canterino” che canta Fiorella Mannoia nella bellissima canzone Un aeroplano a vela, che esce fuori nelle giornate più scure e mi ricorda tutto il bene che ho ricevuto e che continuo a ricevere.



Ma la verità è che la mia vera indole è quella di volpe borderline con un cuore sempre in tempesta. Sono nata così, non so perché. Ogni tanto, e senza vittimismi, lo chiedo a quel Dio in cui credo.

Mio papà mi chiamava “battagliera irachena” (in realtà, prima di incontrare certi volti, anche in un altro modo, ma non lo scrivo). L’idea della sottomissione, del possesso, che una donna sia proprietà di un altro è qualcosa che mi ha fatto sempre rabbrividire.

Solo che mio papà mi voleva troppo bene. Perché la verità è che sono proprio una volpe borderline. Salutare, andare, scappare, litigare, non volermi bene e spesso isolarmi sono le cose che mi sono sempre venute meglio. Scappare da rapporti affettivi (e a volte ho fatto benissimo), ma anche di lavoro, percorsi formativi. E posso assicurare che questo non ha niente a che fare con la libertà. Come quella libertà di donne, bambini e uomini che desiderano solo una terra da abitare e costruire insieme, come a Gaza o in Ucraina.

Però nella canzone ci sono diverse menzogne. La prima è che una volpe borderline non ha bisogno di qualcuno che le dica di andare. Lei va e punto. E poi ci sono altre due menzogne che ho capito bene ultimamente.

Maturità finita (Ansa)

Io ora sto vivendo a Roma. Per venir qui dovevo prendere un treno che ho perso perché lo volevo perdere. La sera prima avevo fatto una cena bellissima con la mia famiglia e poi sono uscita a bere con delle mie amiche. Ma la verità è che non volevo più partire. Sono un po’ pazza e stralunata e la mattina per la prima volta volevo che ci fosse qualcun altro lì con me e volevo che solo quella persona mi tirasse giù dal letto. Ma la vita è più forte. Ed è arrivata una delle mie amiche più care, Maria. Si è seduta sul letto e piangendo (non l’avevo mai vista piangere così) mi ha detto: “Io desidero che tu viva Glo. Pensa a quello che hai intravisto a Roma”.

E mi ha portato fuori, in strada, a fare una passeggiata. E allora pur avendo perso il treno, il giorno dopo ho preparato una bella valigia con l’aiuto di un angelo, mia zia, con l’abbraccio di mio fratello Gio, lo sguardo di mamma, due amici (Stefano e Alessandro) e la telefonata della mia amica Alessia. E sono partita. Siamo partiti e arrivati.

Qualche giorno fa Alessandro mi ha scritto: “Non potevo che iscrivere i miei figli al Guastalla (scusate se faccio pubblicità, ma è una delle scuole a cui sarò per sempre grata perché mi ha insegnato moltissimo, tra le altre cose l’amore per la musica) dove la nostra amicizia è nata e non si è mai persa”. E Giuditta, l’amica che mi ha accompagnato a Roma, quando l’ho ringraziata mi ha detto: “Sai qual è il più grande ringraziamento che mi puoi fare? Vederti felice”.

E allora ecco qua le altre due menzogne. Non è vero che una volpe non sa riempire il destino degli altri. Lo fa semplicemente come riesce. Magari un po’ bislaccamente. E non è vero che amare una volpe è non volerne il ritorno. Amare una volpe è vederla felice. Amare una volpe è amare anche il suo destino. Perché è proprio quando manca questo che tutto diventa possesso e gabbia e non la si lascia libera.

Sulle mura di quella scuola, ora c’è questa scritta: “Sarei certo di cambiare la mia vita, se potessi cominciare a dire ‘noi’. È un verso della Canzone dell’appartenenza di Giorgio Gaber. L’appartenenza è tutto il contrario della gabbia e del possesso. Quel “noi” per me vuol dire poter cominciare ad amare il destino dell’altro, insieme. Amare il destino delle volpi borderline, con o senza un anello, degli uomini e donne a metà che si ritrovano tra le mura di un carcere. È amare, sì, anche il loro destino. Che possano ritrovare una via alla vita. È amare il destino di popoli che si fanno la guerra e volerne solo la pace. È amare il destino dell’altro in un rapporto di amicizia, d’amore, di comunità, di popolo.

Due domeniche fa ero all’Ospedale Bambin Gesù. Sono andata a trovare una bambina con un problema al cuore. Lei sì che è una vera guerriera irachena. Si chiama Maria Celeste. Di nome e di fatto, perché ha proprio due occhi celesti. Per quanto avesse un sacco di sacchetti attaccati al corpo, ha avuto tempo solo per scherzare con me e altre ragazze. Abbiamo giocato per un’ora a carte. Mi ha fatto veramente bene al cuore.

Mentre questa domenica a messa ho incontrato Laura, una vecchietta che faceva la fisioterapista. Mi han detto che era bravissima. Solo che poi, non si sa come, ha perso qualche rotella. È un tipo originalissimo, come piace a me. Così originale che da qualche anno ha invitato un barbone a vivere nella sua casa. A messa canta fuori tempo, alza la voce, chiede sempre la mano di qualcuno per andare a fare la comunione. Alla fine della messa mi ha chiesto il mio nome perché se lo dimentica tutte le volte che mi vede. Ma questa volta mi ha preso pure la mano e mi ha guardato negli occhi. Anche lei occhi azzurri (il destino, non ce n’è, mi vuole bene. Gli occhi azzurri mi ricordano i volti delle persone che amo). Mi ha guardato negli occhi e mi ha detto: “Che begli occhi neri che hai”. Mi sono sentita tanto amata.

Ecco, Maria Celeste e Laura mi hanno fatto intuire carnalmente quel “noi”. Mi hanno fatto intuire carnalmente che il mio posto, più che una casa (non che non la desideri), sono dei volti. E allora non rimpiango neppure le mie fughe in Brasile, America, Spagna. Perché i volti che ho incontrato mi hanno costruito. Mi hanno fatto intuire che non voglio più scappare dal mondo, figuriamoci salvarlo – sono la persona più disgraziata che esista – ma lo voglio servire e amare così come sono. E voglio essere amata così come sono. Ora ho un tempo e sono in un luogo particolare per capire come. Ma forse, chissà, in un modo tutto mio e molto maldestro l’ho già fatto, forse, chissà, lo sto già facendo.

Quello che semplicemente auguro a tutte le volpi borderline e i cuori bambini e in tempesta come il mio, è sì di andare, ma non scappare. E servire e amare il mondo così come si è. Lasciarsi amare così come si è, da chi ti ama così come sei. Non siamo fatte neanche noi per rimanere da sole.

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