REFERENDUM E TV/ C’è un “bug” che mette in crisi Renzi

- int. Sara Bentivegna

Renzi non può non personalizzare il referendum, e la prova sta esattamente in quello che sta facendo. E' la democrazia del leader, spiega SARA BENTIVEGNA. Ma potrebbero arrivare sorprese

mrenzi_stampaR439 Matteo Renzi (LaPresse)

Renzi e il referendum: dalla personalizzazione spinta della primavera scorsa (se perdo mi dimetto) a oggi, potrebbe esser cambiato così tanto da non essere cambiato nulla. In mezzo ci sono stati gli avvertimenti molto preoccupati dell’ex presidente della repubblica Giorgio Napolitano, le critiche della minoranza dem, i mea culpa; ma il presidente del Consiglio è sempre di più al centro della scena. Strategia deliberata o protagonismo inevitabile? Lo abbiamo chiesto a Sara Bentivegna, docente di comunicazione politica nell’Università La Sapienza di Roma.

Renzi è dappertutto, la personalizzazione sembra per lui una via obbligata.

Temo di sì. Siamo di fronte all’incarnazione più compiuta del governo del leader di cui parla Mauro Calise; il governo è Renzi, è lui che dà corpo a tutti i ministri, è lui la fonte della loro legittimazione politica. In queste condizioni non può che personalizzare, alternando momenti di tregua per far scendere la sovraesposizione. Ma siamo a ridosso del voto ed è un’impresa difficile.

A ridosso del voto? Si vota il 4 dicembre.

La politica è cambiata. Siamo in una campagna elettorale permanente, fatta di tappe: ora è il referendum costituzionale, ieri erano le amministrative. E’ un percorso cominciato quando Renzi si è candidato a leader del centrosinistra nel 2012.

Il presidente del Consiglio che rischi corre?

Deve stare attento a non raggiungere il livello di saturazione. Oggi è una presenza continua e ossessiva sui media generalisti. Il rischio è il tormentone: prevedi la battuta perché sapendo dove vuole arrivare, sai già cosa sta per dire.

Insomma il pericolo è quello del rigetto?

Sì. Inizierà probabilmente a calmierare le presenze, a usare solo alcune occasioni. 

Il premier è passato dalla personalizzazione alle astuzie retoriche: definire “spassose” le discussioni su quanto cresce il Pil, accusare la “caccia all’uomo mediatica” contro il Sì, dire che la”cultura del no” impedisce il dibattito, eccetera. Qual è la matrice ideologica di questo storytelling?

E’ un fenomeno che finora è stato estraneo alle nostre campagne elettorali, perché la politica era diversa e oggi Renzi è un perfetto interprete di quella nuova. Il metodo della boutade, della cosa vera e non vera, è una scelta strategica derivante anche dal fatto che la crisi di autorevolezza e legittimazione della politica coinvolge direttamente il sistema mediatico. Perché media e giornalisti non replicano prontamente mettendo alle strette l’interlocutore quando resta sul vago, vagliando ciò che dice, obbligandolo a chiarire? Se gli si lascia libertà di “narrare”, il politico ha buon gioco nel dire tutto ciò che vuole.

Renzi viene accostato a Berlusconi. A ragione o a torto?

Entrambi hanno rappresentato una svolta nel contesto comunicativo: Berlusconi con la televisione commerciale, Renzi con l’uso dei social media e della tv inserita nel nuovo sistema mediale. Il resto lo fa il contesto mutato. Berlusconi personalizzava stagliandosi su uno sfondo più tradizionale, Renzi lo fa in un contesto in cui i partiti sono di fatto scomparsi.

Renzi e M5s?

Sia M5s che Renzi sono una sfida continua. Il risultato è massimo quando si tratta di tenere alta la tensione; i guai arrivano quando si perde. L’escamotage comunicativo della sfida, la rete, è comune; m5s per identità ideologica, Renzi per cultura personale.

 

I social media quanto spostano?

Non muovono direttamente, ma contribuiscono a creare un clima di opinione che viaggia su canali diversi da quelli tradizionali consolidati, e così possono influire su questi ultimi.

 

Ma web e tv hanno una capacità di erosione dell’altro campo, del Sì da parte del No e viceversa?

Le referendum issues spaccano sempre inevitabilmente il campo, frazionandolo in un gioco di parti mobili. Ci sono spaccature trasversali in qualsiasi forma di comunità o di rete. In questo periodo i media vivono di bolle, nel consumo tv e nell’esposizione: ad esempio “Politics” l’altra sera ha avuto un buon successo, ma sappiamo che i talk show stanno precipitando quanto ad ascolti. La prossima volta potrebbe andare diversamente.

 

Il Sì e il No da che cosa sono realmente influenzati, secondo lei? Non certo da una valutazione minuziosa del nuovo testo costituzionale. 

Sono in gioco diverse dinamiche e spinte, governate da diversi soggetti: il tentativo di identificare il Sì con il cambiamento e il No con la conservazione; la chiamata al voto pro o contro il governo; il discorso di merito, che riguarda una piccola minoranza. E altre, nuove, potrebbero emergere. Tutte queste dimensioni, che rimandano a interessi e aspettative legittimi, sono compresenti e saranno rigiocate da tutti in modo diverso fino all’ultimo.

 

Come prevede che andrà a finire?

Innanzitutto, l’astensione sarà alta. Quanto all’esito, penso che oggi in Italia ci sia una maggioranza silenziosa, disattenta e disaffezionata, che non si fa tirare in ballo ma che sta facendo da contraltare sotterraneo al clamore mediatico. E propende al No.

 

C’è qualcosa che può far andare in cortocircuito lo storytelling?

Sì, l’evento. Ogni sola narrazione per ciò stesso contiene un bug. Nel mercato di Renzi c’è un problema legato agli accadimenti, ai fatti: è inutile, e alla fine controproducente, dire a chi non trova lavoro che il lavoro è ripartito, o che se vota Sì al referendum rilancia il Pil. La rappresentazione della realtà deve basarsi sui fatti; se così non è, prima o poi arriva il conto.

 

(Federico Ferraù)





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