POVERE CREATURE!/ “L’inganno” nel film campione di incassi e di premi

- Chiara Pajetta

Più che una presunta emancipazione femminile, al centro del film di Yorgos Lanthimos c'è la scienza che pretende di non avere limiti

poverecreature film lanthimos 1 web1280 640x300 Una scena del film

Anche nello scorso weekend al top degli incassi in Italia: l’ultima fatica dell’acclamato regista greco Yorgos Lanthimos Povere creature! sta sfondando al box office ed è giunto ormai ai 7 milioni di euro. Come mai un film non per tutti (è comunque vietato ai minori di 14 anni), di sicuro visivamente molto affascinante, ma dal messaggio non chiarissimo e in ultima analisi non del tutto esaltante, sta attirando tanti spettatori?

D’accordo, ha ottenuto 11 candidature agli Oscar, è stato premiato col Leone d’oro come miglior film al Festival di Venezia, ha vinto due Golden Globe e ha ricevuto altri rilevanti riconoscimenti; dunque possiamo certamente definirlo un film importante e avvincente. Ma a nostro avviso è anche ingannevole e per certi aspetti pericoloso per i tanti messaggi sottesi. In particolare, la pretesa della scienza di ergersi a chiave esclusiva per la conoscenza della realtà e per il presunto affrancamento dell’uomo, o meglio della donna in questa versione al femminile del mito di Frankenstein, da ogni condizionamento sociale e culturale e dalla sua origine divina.

La storia, tratta dal romanzo del 1992 di Alasdair Gray, in effetti è sorprendente, umoristica e complessa. Emma Stone, fresca di Golden Globe e candidata all’Oscar per la sua eccezionale performance, incarna perfettamente Bella, una povera creatura o meglio una povera cosa (come recita il titolo originale del film, Poor Things), insieme con altre “creature” che popolano la casa vittoriana dello spregiudicato e cinico medico-scienziato sperimentatore che l’ha riportata in vita, Godwin Baxter.

Sì, perché la ragazza è stata salvata proprio da lui quando, in attesa di un bimbo, aveva deciso di togliersi la vita. Il dottor Baxter (un credibilissimo Willem Dafoe, significativamente chiamato “God” da Bella, che lo considera suo padre) ha dedicato tutta la sua esistenza alla medicina diventando lui stesso cavia per suo padre, che l’ha deturpato con terribili cicatrici, conseguenza dei più crudeli esperimenti. Perciò considera la sua nuova creatura il frutto di una passione scientifica che vuole quasi sfondare il limite dell’umano. Inizialmente la preserva da ogni contatto esterno, anche perché la ragazza ha in realtà la maturità di un bambino (e, tragicamente… anche il cervello trapiantato!) che deve ancora scoprire il mondo di cui non conosce nemmeno le regole più elementari. Così ci divertono i suoi atteggiamenti infantili, capricciosi e sconclusionati, che non corrispondono affatto alla sua figura di giovane donna. Ma lei non accetta alcuna convenienza sociale e si comporta senza pudore, risultando persino insensibile all’amore.

Bella inizia a questo punto con il suo “creatore” un lento percorso di formazione, guidato dal mito della conoscenza logico-razionale e dalla soddisfazione dell’istinto. Sceglierà poi di abbandonare la casa-prigione con il consenso di “God” che, pur tardivamente, le riconoscerà il libero arbitrio. La ragazza parte per un tour di sperimentazioni audaci con il proprio corpo lasciato a briglia sciolta, e con la mente, grazie all’incontro con altri mondi: Lisbona, Parigi, la navigazione sull’oceano… Non da sola però, bensì accompagnata da Duncan, un furbo e impenitente libertino (un ottimo Mark Ruffalo) che approfitta della sua ingenuità, ma sarà poi bellamente accantonato per le sua noiosa, insistente passione amorosa, che sfocia in una gelosia ridicola. La “creatura totalmente libera” di Godwin è sulla via dell’emancipazione a ogni costo, vuole quasi divorare la vita: nuove sensazioni e nuovi ragionamenti che le fanno anche scoprire la sofferenza degli altri (su cui però non si attarda troppo) e l’ingiustizia della prostituzione, a cui in realtà attinge a piene mani, ritenendo di potersene servire senza rimanerne segnata. Vive anche questa avventura senza sensi di colpa, in totale a-moralità.

Tra città fantastiche, colori sgargianti, musiche e balli, il percorso di Bella prosegue, finché non giunge una lettera che la richiama a casa per congedarsi dal suo creatore morente: è solo un attimo di commozione però, presto cancellato dal leggiadro e grottesco finale. La “donna nuova emancipata” riesce infatti a sposare il giovane medico che aveva assistito il padre nelle sue sperimentazioni e si avvale proprio del suo aiuto per “migliorare” e insieme punire l’ex marito prevaricatore ed egoista da cui era fuggita, incinta e disperata, al punto di gettarsi da un ponte. Lo trasformerà senza farsi troppi scrupoli in una capra brucante dal volto umano, un elemento in più del corredo di animali ibridi che popolano il giardino della casa degli sposi (come in passato quello del padre).

Ecco il risultato della sete di conoscenza della “nuova donna libera”: dominare gli altri, soprattutto i maschi, trasformarli a piacimento, sperimentare tutto ciò che la affascina esattamente come “God” aveva fatto in passato su di lei. Una storia che si ripete, dunque: è questa l’emancipazione femminile tanto decantata dai critici?

Lo spettatore ride del finale fantastico e paradossale, che apparentemente inneggia alla scienza medica a cui finalmente Bella può dedicarsi totalmente. Ma che dire di questa “scienza” che nasce dalla pretesa di provare tutto senza remore, come se il mondo e i suoi abitanti fossero a disposizione totale, e non un dono che nulla ha a che fare con le disumane velleità innovative degli scienziati pazzi di turno? Non siamo “povere creature”, ma creature di Dio.

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