Il mondo è diventato velocissimo. Paragonato al «secolo breve», come Eric Hobsbawm chiamò il 900 (cioè il XX secolo, che pure trascorse al galoppo, tra le due guerre mondiali, i nazionalismi, le grandi dittature), questo XXI secolo sembra andare a rotta di collo.
Vale la pena di ricordare che il «breve» 900 vide, tra l’altro, un fatto curioso, occorso là dove l’Ancient Regime esalava l’ultimo respiro: l’invenzione della psicoanalisi. Un neurologo ebreo viennese, Sigmund Freud, decide di abbandonare l’ipnosi, tecnica allora in voga, che voleva essere una scorciatoia verso il mondo interiore, l’invisibile della psiche. Pensa di togliere i pazienti da una posizione passiva, determinata da quella tecnica suggestiva e, certo, rapida; la sua rivoluzione è semplice: li invita a sdraiarsi su un divano, e, senza alcuna altra prescrizione, li esorta: «Dica quello che le passa per la testa!».
Ma, come dicevo, il mondo nel XXI secolo va oltre, è velocissimo. La tecnologia è arrivata ad abbattere le barriere all’ingresso di una quantità enorme di saperi, di campi della conoscenza, di luoghi geografici persino. L’uomo «si muove» a una velocità che gli consente ormai di stare fermo in casa sua, dietro uno schermo, e di sapere di tutto, vedere tutto e accedere dappertutto; è un paradosso di eccezionale rilievo. Ma l’individuo di oggi, lì seduto, dietro la sua banda larga e il suo internet velocissimo, come sta? Non troppo bene, si direbbe.
Mai il disagio psichico ha battuto così forte alla porta del servizio pubblico, delle professioni di aiuto e dei servizi di cura della malattia mentale. Più il mondo diventa piccolo, accessibile e ospitale, più veloce diventa la manovra degli oggetti quotidiani, più l’animo umano mostra il suo turbamento.
Le scuole producono adolescenti «infiniti», ragazzi che a diciotto anni, non solo si sentono (e sono di fatto) ancora dipendenti economicamente dalla famiglia di origine, ma anche inadeguati a un progetto di autonomia individuale. La soggettività è precipitata nella scala valoriale a livelli che ricordano le Crociate: tutti insieme, un esercito compatto di credenti per la conquista di qualcosa di cui non si sa nulla, ma che promette la redenzione; la moderna Terra Santa è la connessione globale. Che questo si riveli poi qualcosa di inquietante, «L’inferno dell’identico», per usare le parole di Byung Chung-Han, poco importa. Una connessione che consente di non essere mai sguarniti. Ma connessione a cosa? È in questa logica che si innesta una promessa di benessere che dipende dalla totalità di questa connessione. Anche a se stessi, naturalmente. Ma cosa vuole dire?
Il disagio degli adolescenti e degli adulti oggi testimonia proprio la mancanza di connessione, paradossalmente. Connettersi, come soggetto, umanamente, è diventato difficilissimo. La facilità di accesso a bisogni concreti e commerciali ha reso i giovanissimi inermi davanti alla vita pulsionale, che passa per un incontro con ambiti misteriosi e con ostacoli inquietanti: la sessualità, il proprio desiderio. Il giovane adulto oggi è davanti a uno schermo, cercando nelle reti sociali internet le soluzioni che neppure prova più a cercare da solo. L’esperienza degli altri è la sua, e tanto gli basta. Con una precisione manualistica, dall’abbigliamento alle opinioni, il mondo online propone una comoda uniformità, senza fatiche. La fatica è trovare una ricetta propria, per il disagio proprio. Approssimando e arrancando.
Rispetto a questo, osservo che le psicoterapie che oggi propongono soluzioni «brevi», vanno, al contrario, nella direzione di una cura che risulti precisa, ben calibrata, che si occupi di segnali evidenti; si chiede al soggetto di «volersi bene», di ascoltarsi, di prendersi cura del «bambino che è in lui». Si fa leva su una buona volontà «positiva» che il soggetto troverebbe facilmente, gli basterebbe guardare bene. Ci sono protocolli cognitivo-comportamentali che parlano di «mente saggia». Quando rifletto sulle psicoterapie mi viene in mente a che punto manchino di una qualità fondamentale, spesso bistrattata, che appartiene al mondo dell’arte, e quindi, a mio giudizio, a quello dell’anima dell’uomo, di conseguenza. Questa qualità è l’approssimazione.
Per scardinare il pesante catenaccio della pseudo scientificità delle psicoterapie odierne, post-psicoanalitiche, comincio da un elogio dell’approssimazione, qualcosa che ho ammirato alla Scuola Grande di San Rocco a Venezia, guardando la Crocifissione di Tintoretto. Da quel figlio di un tintore che era andato a scuola di disegno, Jacopo Robusti, detto «Tintoretto». Le sue sono opere dalle dimensioni gigantesche, ricoprono pareti intere. Il disegno preparatorio era la tecnica corrente e sottostava alla pittura. Ma non per Tintoretto, che dipinse, per esempio la Crocefissione, a braccio. Niente disegno preliminare, un rischio enorme. Ma l’estro è l’ingrediente che porta via la prudenza e regala un sapere interiore, incomunicabile e irriducibile a regole altrui.
L’energia istintuale non può essere sopportata da seduti. Freud ci ha detto che la pulsione è un’esigenza di lavoro dell’apparato psichico, dovuta all’esserci di un corpo in legame con esso; corpo: lo stesso che per i latini doveva essere sano, per stare in una mente sana.
Le terapie che danno prescrizioni, basate su elementi che sono condivisibili con risultati precedenti, ancorate nel buon senso, giustificate da una serie di risultati visibili in tempi rapidi, queste sono ricette per tutti, ma non vedranno prendere vita l’opera di nessuno in particolare. Magari i sintomi recederanno, si avrà la sensazione di aver avuto momenti di sollievo. Ma l’inconscio tornerà, come l’herpes, a fiorire il viso nei giorni di festa, a manifestarsi e a chiedere il conto. La questione soggettiva non si può esaurire con tecniche e regole uguali per tutti. L’individuo è legato a un corpo, che è il suo, a una psiche che è la sua, ma l’attività umana che ne esce non è il frutto semplice di decisioni prese in camera di regia, nel cervello cognitivo, ma un amalgama di effetti tra le parti psichiche e organiche che sfugge, per la sua gran parte, alla volontà dell’Io di «stare bene». La spinta vitale, l’energia che permea le faccende umane non è riducibile a certezze.
Curiositas e cura hanno la stessa radice; la curiosità ci viene quando c’è un disagio, un disturbo, un’increspatura sulla superficie della coscienza, qualcosa che bussa alle porte «solide» delle nostre certezze. Sarà un bussare che arriva dall’esterno, ma anche un bussare che giunge dall’interno. Non si tratterà solo di un sogno che non riusciamo a dimenticare, per esempio, ma anche di una reazione strana, inedita, davanti a qualcosa che ci accade. Un fatto da nulla, maledizione… ma che ci blocca i pensieri.
Dalla curiosità all’impellenza la strada è breve, soprattutto se il disagio, la stranezza o il sintomo (magari fisico e inficiante) si fanno chiari e tendono a invadere la giornata. La curiosità è anche accorgersi che c’è qualcosa che non può essere ottenuto solo attraverso la dimensione del «capire», ma passando per quella del «sentire».
Occorre rafforzare la ricerca di una posizione soggettiva, per aiutare chi si affaccia oggi, come adulto, al mondo velocissimo. Ma anche chi è già «grande», chi ha già uno spazio suo nel mondo del lavoro, o dentro una famiglia, anche per chi in qualche modo «funziona», è fondamentale coltivare la propria soggettività. Anche i contesti aziendali possono rappresentare un terreno difficile per lo sviluppo di un’individualità più salda. L’azienda è spesso come un genitore. Assicura protezione, dà sicurezza, ci fa sentire parte di qualche cosa, garantisce da rischi esterni.
Ma il rischio vero è l’emulazione. Imitare il genitore non lascia liberi di crescere, «sposare» l’azienda, volerle bene («Vincenzina vuole bene alla Fabbrica», cantava Enzo Jannacci), emulare il proprio capo, o trattare i dipendenti come bambini. Molti comportamenti possono appannare la visione autonoma di un soggetto, magari in situazione di fragilità. Ci sono effetti sociali e politici della posizione soggettiva.
Proprio per non aderire supinamente al discorso costituito, ci vuole un momento di pausa, lo chiamerò così, un intervallo, come a scuola. Una parentesi personale che sia luogo della separazione dalle collusioni vigenti. L’individuo ha bisogno di stare fermo, parlare e farsi ascoltare. Ha bisogno della corrente che si crea tra lui e chi lo può ascoltare. Raccontare cura, dalle origini della nostra civiltà. Il racconto di sé è un privilegio che il mondo del «tutto connesso» non può più permettersi. Non c’è tempo né spazio. Prendere contatto con il proprio dissenso profondo sembra allontanare dal buon umore alla moda, dal pensare positivo. Al bando ormai sono il conflitto, un’opinione personale critica, il dire «no» alla moda e alla connessione continua, la solitudine e la timidezza. Chi non si ciba di «like» per qualsiasi cosa faccia, è ritenuto un sedizioso, o quanto meno uno strano.
Ma ritrovare lo spazio di riservatezza è necessario. Auspico l’introduzione di servizi di ascolto individuale, qualificato e professionale di tipo analitico, nelle aziende, nei luoghi di lavoro, nelle scuole. E là dove ci sono professioni che chiamano a un distacco personale necessario al loro svolgimento, penso agli operatori sanitari e del sistema giudiziario, alle forze dell’ordine.
Ebbene, questa è la battaglia: una sfrontata timidezza e un dissenso gentile verso chi vuole «curarci». Alla domanda «quale terapia?», come se si trattasse del menu dei trattamenti di una spa, rispondere, con il Bartleby di Herman Melville: «Grazie, preferirei di no».
Valentina Da Rold
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