Con la prossima Legge di bilancio il Governo interverrà anche sui requisiti pensionistici che dovrebbero aumentare dal 2027
In vista della prossima Legge di bilancio si torna a parlare di pensioni. Nei giorni scorsi il Governo ha chiarito che il bonus Maroni in miniatura (ovvero il trasferimento in busta paga del 9% corrispondente alla quota della contribuzione pensionistica spettante al lavoratore) allo scopo di incentivare il rinvio del pensionamento, sarà al netto del prelievo fiscale, proprio per evitare che l’incremento retributivo derivante dall’operazione comporti l’applicazione per il soggetto interessato di un’aliquota più elevata tale da vanificare ogni possibile convenienza ad aderire al rinvio della quiescenza.
Da tempo circolano strane voci, sia pure con ampi margini di ambiguità a proposito delle platee interessate. Ma per spiegare l’arcano è necessario. come nei romanzi dell’800, compiere un passo indietro. Nel decreto delle “sette piaghe” (n. 4 del 2019) il Governo giallo-verde, oltre a inserire un percorso abbreviato (Quota 100) per accedere al pensionamento anticipato, ne aveva combinata una ancora più grossa benché meno visibile: il blocco a 42 anni e 10 mesi per gli uomini e a un anno in meno per le donne del meccanismo di adeguamento automatico dei requisiti del pensionamento all’incremento dell’attesa di vita fino a tutto il 2026.
L’aggancio era stato introdotto per la vecchiaia dall’ultimo Governo Berlusconi nella XVI legislatura, poi riconfermato con estensione all’anzianità nella riforma Fornero.
Si trattava della norma “virtuosa” per antonomasia ai fini della sostenibilità del sistema, tanto che il rinsavito Governo Meloni ne ha anticipato la cessazione alla fine del 2024: così da quest’anno la norma è ridiventata operativa, ma senza effetti pratici perché l’Istat non ha riscontrato per il 2025 e 2026 significativi incrementi dell’attesa di vita consentendo così l’invarianza dei requisiti, che, invece, a partire dal 2027 dovrebbero aumentare di tre mesi (è questo comunque il limite massimo di incremento consentito a seguito delle verifiche biennali).
Pertanto, senza modifiche, dal 2027, si presenterebbe il seguente scenario: la soglia di vecchiaia dovrebbe salire da 67 anni a 67 e 3 mesi; e quella per l’anticipo con i soli contributi versati – a prescindere dall’età – da 42 anni e 10 mesi a 43 anni e un mese per gli uomini, e da 41 anni e 10 mesi a 42 anni e un mese per le donne.
“È importante – ha sostenuto la Presidente – che venga mantenuto l’adeguamento automatico al fine di attenuare l’aumento dell’indice di dipendenza dei pensionati ed evitare che le pensioni risultino troppo basse, con conseguenti pressioni sugli istituti assistenziali”.
A sollevare il problema nei mesi scorsi era stata la Cgil che aveva segnalato un nuovo caso in sedicesimi di esodati, in quanto, secondo i suoi calcoli, vi sarebbero almeno 44mila persone che avendo negoziato col proprio datore di lavoro un esodo anticipato a fronte di una extra liquidazione parametrata sui previgenti requisiti necessari a varcare l’agognata soglia della quiescenza, verrebbero a trovarsi per un periodo di tre mesi senza reddito e senza pensione, nel caso di spostamento in avanti dei requisiti a partire dal 2027.
Il conto era dettagliato: 19.200 lavoratori in isopensione e 4.000 con contratto di espansione. A questi si aggiungerebbero altri 21.000 lavoratori usciti con i Fondi di solidarietà bilaterali, per i quali, seppur con impatti diversi, si configurerebbe comunque un possibile vuoto di copertura previdenziale.
In questo passaggio sta l’equivoco che la manovra di bilancio dovrà sciogliere. Si pensa di esentare dal modesto incremento dei requisiti questi casi oppure si intende “gettare il bambino con l’acqua sporca” ovvero far saltare il meccanismo (la cui attivazione richiede comunque provvedimenti normativi di accertamento e prescrizione) senza curarsi delle ricadute sistemiche e finanziarie, stimate in 4 miliardi all’anno?
Ognuno è in grado di far di conto su di un pallottoliere immaginario dell’evoluzione dei requisiti e di misurare il numero di anni occorrenti – per tre mesi a ogni biennio – per transitare, nel caso della vecchiaia da 67 a 70 anni. Nel 2035 si arriverebbe a 68 anni di età per la vecchiaia e a 44 anni per l’anzianità, se uomini.
Può fare impressione l’incremento di quest’ultimo requisito contributivo che prescinde dall’età anagrafica, già ora a livelli molto elevati. Ma l’asino cade proprio a questo incrocio. Perché le generazioni che nei prossimi anni andranno in quiescenza anticipata saranno in grado di farlo, sia pure con un’ elevata anzianità di servizio, a un’età anagrafica media alla decorrenza che non arriva a 62 anni. È la solita logica di tutelare le generazioni che andranno in quiescenza nei prossimi anni, a scapito delle giovani generazioni. Tanto più che usufruiranno del trattamento per un numero crescente.
Come ha certificato l’ Istat: la speranza di vita dopo i 65 anni si è allungata a 21,2 anni in media (ma 19,8 per gli uomini e 22,6 per le donne). Va poi ricordato che l’effetto dell’incremento automatico dei requisiti opererà in modo particolare per i trattamenti liquidati col sistema misto, in via di esaurimento nell’arco di alcuni decenni.
Quando si applicherà in generale il calcolo contributivo, diventeranno operative altre logiche: il calcolo della pensione sarà determinato dal montante contributivo e dai coefficienti di trasformazione ragguagliati all’età anagrafica al momento della data di decorrenza effettiva della quiescenza. Quindi il lavorare più a lungo diventerà la principale condizione per l’adeguatezza del trattamento. E i trend demografici lo consentiranno.
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