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Home » Lavoro » Pensioni » RIFORMA PENSIONI/ Il silenzio del Governo che aiuta le “sparate” dei sindacati

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RIFORMA PENSIONI/ Il silenzio del Governo che aiuta le “sparate” dei sindacati

Giuliano Cazzola
Pubblicato 11 Maggio 2021
maurizio landini

Maurizio Landini, Cgil (Lapresse)

I sindacati vorrebbero arrivare alla resa dei conti con la riforma delle pensioni targata Fornero riportando indietro le lancette della storia

Non avevamo dubbi. “La riforma pensioni è uno dei temi prioritari da affrontare in questa fase”. È questo l’incipit delle “Proposte sindacali in tema di previdenza”. Oggi, nel silenzio del Governo, Cgil, Cisl e Uil si presentano a riscuotere le promesse del ministro Nunzia Catalfo. Pertanto, la strada è tracciata. “Dopo i primi positivi interventi di modifica alla legge Monti-Fornero introdotti in questi anni grazie all’iniziativa sindacale, occorre continuare a cambiare il sistema previdenziale al fine di eliminarne gli aspetti iniqui, fra i più restrittivi d’Europa, e determinare risultati concreti in linea con le richieste indicate da tempo nella piattaforma unitaria di Cgil, Cisl e Uil che rimane il riferimento per una riforma organica del sistema previdenziale del nostro Paese”. 


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Come si può vedere, i sindacati se la suonano e se la cantano da soli. Si attribuiscono il merito dei “primi positivi interventi di modifica” della riforma del 2011, senza spiegare a quali misure si riferiscano, che non siano “quota 100” e gli altri provvedimenti del Governo giallo-verde. Il solo merito che può essere loro attribuito è quello di aver negoziato nella XVII legislatura, nel settembre 2016 in vista della Legge di bilancio per l’anno successivo, il pacchetto Ape con annessi e connessi. Una serie di interventi che avevano delle finalità diverse da quelle bellicose di oggi, perché servirono a salvaguardare la disciplina della riforma Fornero, che non subì modifiche di rilievo, assicurando nel contempo uscite di sicurezza per i casi di effettiva necessità di consentire l’anticipo della pensione. 


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Sarebbe ancora quell’impianto, nel suo complesso (varie tipologie di Ape, precoci, Opzione donna, ulteriore salvaguardia per gli esodati, ecc.), che potrebbe benissimo, magari con qualche ritocco, coprire quello spazio ora occupato da Quota 100 e destinato a venire meno a fine anno. In quella circostanza, venne concordata una fase 1 in cui erano contenute le misure che avrebbero trovato collocazione nella Legge di bilancio e fu stabilito che, in seguito, il confronto si sarebbe sviluppato sui seguenti temi: “In vista di un possibile intervento di riduzione strutturale del cuneo contributivo sul lavoro stabile al termine della fase attuale di esoneri temporanei, valutare l’introduzione di una pensione contributiva di garanzia, legata agli anni di contributi e all’età di uscita, al fine di garantire l’adeguatezza delle pensioni medio-basse; interventi sulla previdenza complementare, volti a rilanciarne le adesioni, a favorire gli investimenti dei fondi pensione nell’economia reale e a parificare la tassazione sulle prestazioni di previdenza complementare dei dipendenti pubblici al livello di quella dei privati; favorire una maggiore flessibilità in uscita all’interno del sistema contributivo, anche con una revisione del requisito del livello minimo di importo (2,8 volte l’assegno sociale) per l’accesso alla pensione anticipata; valorizzare e tutelare il lavoro di cura a fini previdenziali; nell’ambito del necessario rapporto tra demografia e previdenza e mantenendo l’adeguamento alla speranza di vita, valutare la possibilità di differenziare o superare le attuali forme di adeguamento per alcune categorie di lavoratrici e lavoratori in modo da tenere conto delle diversità nelle speranze di vita ; approfondire lo studio della separazione fra previdenza e assistenza a fini statistici e per la corretta comparazione della spesa previdenziale a livello internazionale”. Un altro tema del confronto avrebbe dovuto riguardare la perequazione dei trattamenti pensionistici. 


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RIFORMA PENSIONI, I SINDACATI ALLA RESA DEI CONTI CON LA RIFORMA FORNERO

Erano altri tempi? I sindacati hanno cambiato idea a seguito dell’esigenza di gestire il post-Quota 100 e i rischi di un nuovo scalone? Ci saranno senz’altro dei buoni motivi, ma dei contenuti di quel simil-accordo sulla fase 2 tra Governo e sindacati del 2016 non si trovano conferme nell’attuale piattaforma dei sindacati. Se le parole hanno un senso, gli approfondimenti dovevano essere dedicati – per quanto riguardava la previdenza obbligatoria – a realizzare una maggiore flessibilità nel sistema contributivo. Le proposte che le confederazioni hanno presentato al Governo si riferiscono, invece, prevalentemente ai pensionandi in regime di sistema misto, che potranno andare in quiescenza a 62 anni con almeno 20 anni di contribuzione o facendo valere, a qualsiasi età, 41 anni di versamenti. Ricchi premi e cotillons sul versante della contribuzione figurativa, soprattutto per le lavoratrici. Poi vi sono certamente incluse altre questioni, riguardanti per esempio la previdenza complementare e il “gioiello” della pensione contributiva di garanzia per i giovani. 

In sostanza i sindacati vorrebbero arrivare alla resa dei conti con la riforma Fornero, riportando indietro le lancette della storia e cestinando un ventennio di riforme magari venute avanti con il passo del gambero. Mentre il Governo continua a pensare ad altro (mitigare la pandemia è certamente più importante che accapigliarsi sulle pensioni) ha detto la sua Pasquale Tridico, atteggiandosi a re Salomone, colui che minacciò di tagliare a metà il bambino conteso da due madri allo scopo di individuare quella vera. Il Presidente dell’Inps ha inventato un sorta di pensionamento a rate. Ne ricordiamo i capisaldi: la possibilità di andare in pensione dai 62-63 anni solo con la quota che è maturata in regime contributivo a cui il pensionato aggiungerebbe quella retributiva al compimento dei 67 anni. Peraltro sarebbe utile che Tridico corredasse la sua proposta con l’indicazione di qualche ulteriore requisito e un po’ di dati sui costi, stimando in primo luogo la maggiore spesa derivante dalla proposta dei sindacati e detraendo il risparmio che produrrebbe la sua “variante” (ammesso e non concesso che ne valga la pena).

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