Si torna a parlare di salario minimo: le opposizioni, in particolare il Pd di Elly Schlein, insistono sulla necessità di una legge
Nell’iniziativa legislativa delle opposizioni i ballon d’essai sfioriscono in poche ore come le rose. La settimana scorsa era stata la volta della tentazione ricorrente di un’imposta patrimoniale. Il primo a parlarne era stato Maurizio Landini, sia pure con un bel po’ della confusione a cui il leader della Cgil ci ha abituati.
In prima battuta la proposta era quella di una sovraimposta dell’1% sui patrimoni superiori a un milione; la misura avrebbe riguardato – a sentire Landini – 500mila contribuenti con un gettito di 26 miliardi. Ovviamente si trattava di numeri al lotto, perché non vi erano ulteriori spiegazioni di come si pervenisse a questi risultati. Ma la “banda del politicamente corretto” non si era permessa di dubitare e aveva ripetuto in tutti i talk show di regime la tiritera del prode Landini, fino a quando non è stato il sindacalista stesso a rivedere la proposta: il milione è raddoppiato e si è aggiunta – se abbiamo ben compreso – un’aliquota dello 0,3%.
Poi più che il dolor potè il digiuno. Il relativo emendamento non è entrato a far parte dei “magnifici 16” che hanno cementato l’iniziativa comune del campo largo. Solo Avs – nei secoli fedele – è rimasta con un suo emendamento a far la guardia al bidone.
Maggiore fortuna è toccata al salario minimo sul quale il campo largo si è addirittura allargato con la cooptazione di Italia Viva, essendo l’omaggio a questa norma una delle dodici fatiche di Ercole a cui Matteo Renzi deve sottoporsi per essere ammesso nella società dei professionisti del bene.
A quanto pare, diversamente che nel bilancio 2025, nei capisaldi delle opposizioni non è rimasto spazio per qualche cosa di simile al Reddito di cittadinanza. Il M5S si accontenta di inserire la sua creatura nei programmi delle elezioni regionali, dove ha modo di trovare qualche possibilità di rivisitazione magari sotto mentite spoglie. Sia lode, dunque, al salario minimo! Una bandiera che non verrà mai ammainata, soprattutto dopo che l’Alta Corte di giustizia, sia pure con qualche taglio significativo, ha respinto il ricorso della Danimarca contro la Direttiva europea sull’istituzione del salario minimo.

Parlando in occasione della campagna elettorale in Puglia, Elly Schlein, l’ha presa un po’ alla larga, evocando persino la figura di Elon Musk, come se Giorgia Meloni fosse in evidente contraddizione a vantare un’amicizia con l’uomo più ricco del mondo e a negare nello stesso tempo il salario minimo a milioni di lavoratori. Forse la “giovane caudilla” ritiene che se Giorgia rompesse i legami con Musk sarebbe legittimata a bloccare lo smig? Poi è venuta la promessa solenne: “La prima cosa che faremo al governo nazionale sarà approvare il salario minimo: sotto i nove euro l’ora non è lavoro, è sfruttamento”.
Questo ukase ricorda (in modo invertito, con un’approvazione al posto di un’abolizione) quello di Matteo Salvini quando il Capataz della Lega prometteva che nella prima riunione del suo governo sarebbe stato varato un decreto legge per abolire la riforma Fornero delle pensioni. Se vogliamo cercare di essere seri (operazione difficile quando viene richiesto di schierarsi e non di discutere di merito), in questa materia (usiamo un linguaggio automobilistico) c’è un angolo morto: che fare della legge delega (n. 144/2025) sulla giusta retribuzione che ha delegato il Governo a definire strumenti operativi per garantire salari equi, rafforzare la contrattazione collettiva e contrastare il lavoro sottopagato?
Anche se non sancisce una cifra fissa per il salario minimo, il suo obiettivo è quello di implementare il principio costituzionale di una retribuzione proporzionata e dignitosa (articolo 36 della Costituzione) tramite decreti attuativi.
Per le opposizioni si tratta di un provvedimento eretico da non prendere neppure in considerazione perché la strada da seguire è quella dei nove euro pochi, maledetti e subito. Quanto al Governo e alla maggioranza vi è l’impressione di aver messo in piedi un groviglio di buone intenzioni difficilmente realizzabili, perché, a ogni passo ci si imbatte in una norma o nella giurisprudenza costituzionale oltreché in difficolta politiche e pratiche ultradecennali.
Non si hanno notizie su come procedono i lavori del ddl delega, ma sappiamo che la sessione di bilancio sottrae importanti energie al Governo e al Parlamento. Basta leggere i principi e i criteri della legge per accorgersi che gli obiettivi sono ambiziosi e più organici della proposta su cui insistono le opposizioni sindacali e politiche e che spesso come si dice con un gioco di parole è meglio fare meno, ma meglio. Soprattutto vi è una questione molto seria da superare: l’indicazione per cui i trattamenti economici complessivi minimi sono quelli previsti dai contratti collettivi nazionali di lavoro maggiormente applicati.
Per evidenti motivi questo criterio potrebbe entrare in conflitto con quello del contrasto al dumping sociale dei “contratti pirata”. Un decreto legislativo non può riscrivere la delega, ma il rischio è visibile e va evitato, senza dover ricorrere al Circo Barnum di una legge sulla rappresentanza.
In conclusione, non sarebbe il caso che – archiviata per l’ennesima volta nella Legge di bilancio la suggestione del salario minimo legale – anche le opposizioni si mettessero a tallonare il Governo per applicare al meglio una legge (la n. 144/2025) che già è vigente?
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