L'Ue non può pensare di rispondere ai dazi degli Usa con dei contro-dazi: occorre rafforzare la domanda interna
Donald Trump ha cambiato idea (e umore) ancora una volta: per l’Unione europea niente tregua di 90 giorni; al contrario, tra una settimana verranno imposte tariffe del 50%, non più del 25% come annunciato il 2 aprile, il “Liberation day”. Le borse hanno reagito con nuovi crolli degli indici azionari, i risultati peggiori a Francoforte e a Milano, perché Germania e Italia sono i due grandi Paesi che più hanno puntato sulle esportazioni come motori della economia (negli ultimi anni in particolare sulle vendite negli States).
Un’altra doccia fredda per Berlino che prepara una svolta politica e per l’Italia la cui economia rallenta, ma resta solida (mercato del lavoro, bilanci delle famiglie e delle imprese, banche), come ha scritto Moody’s nella nota che accompagna la conferma del rating Baa3 con outlook positivo non più solo stabile.
L’agenzia di rating è più severa delle sue sorelle e il voto è appena un gradino superiore al confine con il livello speculativo (quello dove comincia il rischio per la copertura degli interessi e del capitale). I tassi d’interesse di mercato restano alti e ciò pesa non solo sul costo del debito, ma sulla crescita. Tuttavia, con questi chiari di luna la soddisfazione del Governo è giustificata. Del resto, Moody’s apprezza “un ambiente politico stabile” oltre a “una performance fiscale migliore del previsto nel 2024”.
Sarà importante ascoltare che cosa ne pensano due istituzioni centrali nel sistema economico italiano: una, privata, la Confindustria che tiene martedì la sua assemblea annuale (questa volta a Bologna), alla quale è previsto che partecipi anche Giorgia Meloni, e l’altra pubblica, la Banca d’Italia che si riunisce per ascoltare le considerazioni finali del Governatore.
Sia il Presidente confindustriale Orsini, sia il Governatore Panetta hanno più volte espresso la loro preoccupazione, ma adesso non siamo più di fronte a una generica minaccia. In molti pensano che Trump ancora una volta possa fare una piroetta, eppure non c’è da farsi illusioni, il paradigma economico è cambiato. Lo ha detto chiaramente Mario Draghi in uno dei suoi ultimi interventi. Anche se Trump non sarà del tutto serio (ha confuso milioni con miliardi, quando ha parlato del deficit americano verso l’Ue), il pericolo resta grave.
La Commissione europea, alla quale spetta la titolarità in materia di commercio extra Ue, ha preparato una sorta di santabarbara: un pacchetto di ritorsioni contro merci statunitensi per 100 miliardi di euro. Tutti, però, si rendono conto che rispondere dazio contro dazio finisce solo per innescare un circolo vizioso. Sia l’Ue, sia i singoli Paesi dovrebbero mettere a punto una strategia in due fasi: la prima, immediata, è selezionare i settori strategici sui quali fare barricate e rendersi malleabili su tutto il resto; la seconda, a più lungo termine (ma mesi non anni), è una riconversione del modello economico privilegiato dopo la grande crisi finanziaria e dopo la pandemia: una crescita trainata soprattutto dalle esportazioni.
In concreto, occorre rafforzare la domanda interna, quella dei singoli Paesi e quella dell’area europea non solo della zona euro: intanto c’è la svolta della Gran Bretagna e poi non si possono tenere fuori la Danimarca minacciata da Trump o la Polonia, la Svezia, la Norvegia minacciate direttamente anche da Putin.
Al cambio di paradigma imposto dal trumpismo, non può non seguire una reazione sistemica. Non si tratta di rispondere occhio per occhio dente per dente, ed è naturale cercare altri mercati, ma intanto occorre orientare le politiche economiche nazionali e la strategia europea verso un’espansione dei consumi e degli investimenti, mentre si fanno passi avanti verso quel vero mercato unico del quale parlano con dovizia di dettagli i rapporti Draghi e Letta.
Per evitare che prevalga l’atteggiamento di danneggiare i propri vicini per difendere se stessi, ci vuole un forte coordinamento di Bruxelles accompagnato da un ampio consenso dei Paesi membri utilizzando il voto a maggioranza rafforzata: il 72% è una soglia alta, ma meglio dell’unanimità e del potere di veto.
Non sarà un’operazione facile, bisogna stimolare la domanda innanzitutto dal lato degli investimenti, in modo da non innescare spinte inflazionistiche che rovinerebbero tutto. Tuttavia non è impossibile se si sceglie il finanziamento europeo delle principali scelte industriali (digitale, energia, difesa) e degli ammortizzatori necessari per affrontare crisi strutturali come quella dell’auto (il Sure lanciato per far fronte alla pandemia potrebbe essere riaperto).
Poiché una tale riconversione richiede politiche fiscali e sostegni pubblici, si può aprire una frattura tra chi è in grado di spendere (vedi Germania e Olanda) e chi no, chi ha un debito basso e chi come l’Italia non ha veri margini di manovra, chi cresce più degli altri (la Spagna e la Polonia) e chi ristagna.
Ciò richiede solidarietà e cooperazione: rafforzare l’Europa non è più un’opzione, è una necessità alla quale non ci si può sottrarre. Pensare di agire da soli non ha senso, nessun Paese europeo, nemmeno il più grande, ha la taglia o la forza per far fronte agli Usa o alla Cina.
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