Stati Uniti e Cina firmano un accordo: le aziende USA torneranno ad avere le terre rare. I problemi per Trump vengono dalla politica estera

La guerra dei dazi non poteva che concludersi così: con un accordo commerciale tra Stati Uniti e Cina. I primi avevano troppo bisogno delle terre rare, di cui Pechino in pratica è monopolista; la seconda, invece, non può rinunciare a certe componenti made in USA.

L’intesa può essere giudicata una vittoria di Xi Jinping, che ha resistito alle sparate trumpiane sulle tariffe, e di fatto lo è, ma non si può neanche dire che il presidente americano ne esca sconfitto. Trump, sul fronte interno, non ha perso i suoi sostenitori, ma la sua azione sta radicalizzando i democratici, mentre dal punto di vista economico non ci sono contraccolpi che possano allarmare l’opinione pubblica.



Tuttavia, come spiega Massimo Introvigne, sociologo fondatore del Cesnur e del sito Bitter Winter, la gente non apprezza la linea altalenante di Trump in politica estera e il presidente deve fare attenzione a quello che fa: a lungo andare, le sue incertezze in questo campo le potrebbe pagare proprio l’economia americana.



USA e Cina hanno firmato un accordo commerciale. Chi ha vinto? Xi Jinping?

L’industria americana non può fare a meno delle terre rare e l’industria cinese non può fare a meno dei componenti americani. Non è che abbia vinto Xi Jinping: non si poteva fare diversamente, perché un totale decoupling tra le due economie era impossibile adesso. L’America potrà sviluppare delle alternative, ma si tratta di progetti decennali, se non ventennali. Era l’unica soluzione possibile: in questo momento non c’erano le condizioni per una guerra commerciale. Diciamo che, alla fine, la Cina ha vinto, ma l’America non ha perso.



Cosa cambia nel rapporto tra americani e cinesi?

Non sono convinto che l’accordo dica qualcosa sugli aspetti più strettamente politici, geopolitici, militari dei rapporti tra le due potenze. Non ci dice nulla su Taiwan o sul sostegno cinese alla Russia. In questo senso c’è una vittoria cinese, perché il tavolo commerciale e quello politico sono rimasti separati, come voleva Xi Jinping. Non è possibile immaginare un accordo globale: di certo la Cina non rinuncerà mai alle rivendicazioni su Taiwan e forse neppure all’alleanza con la Russia.

L’intesa, di fatto, sconfessa la linea di Trump sui dazi? Cioè ha dovuto toglierli?

Mi sembra una linea che Trump sta sconfessando con quasi tutti: ha condotto una politica all’insegna degli stop and go e di annunci roboanti seguiti da compromessi al ribasso.

Anche le ultime “minacce” nei confronti di Canada e Unione Europea, quindi, sono destinate a rientrare?

Con la UE si arriverà a degli accordi perché ci sono interessi reciproci da salvaguardare. Trump continua a fare annunci per ragioni propagandistiche, per poi incontrarsi con coloro a cui sono diretti. Il presidente USA o qualche suo sostenitore ci diranno che questa politica ha portato dei vantaggi; in realtà non ha cambiato molto le cose, forse qualche dettaglio, ma non il quadro di fondo. Contrariamente a quello che dicevano i suoi oppositori democratici, però, non è stata dannosa. Nella peggiore delle ipotesi si è trattato di una politica inutile, nella migliore ha permesso di ottenere qualche piccolo vantaggio negoziale.

Trump ha incassato una sentenza favorevole della Corte Suprema sugli ordini esecutivi per vietare lo ius soli per gli stranieri. In generale, dal punto di vista della politica interna, gode ancora dell’appoggio della maggioranza degli americani?

I suoi sostenitori apprezzano quello che sta facendo, mentre gli oppositori si stanno radicalizzando. La vittoria alle primarie del candidato democratico di New York, Zohran Mamdani, lo dimostra, mentre, appunto, i suoi sostenitori apprezzano la politica trumpiana sull’immigrazione, sulla sicurezza, sulla deportazione dei migranti. Tutte cose, invece, che mandano in bestia gli avversari. Quello che non piace agli americani, come dicono i sondaggi, sono invece le oscillazioni di Trump nella politica internazionale, perché queste, alla fine, rischiano di provocare dei danni. L’elettore USA è molto concentrato sull’economia, però è pur vero che la politica internazionale si ripercuote su di essa: lo stop and go dei dazi potrebbe non aver provocato danni alla bilancia dei pagamenti americani, ma ha causato incertezza e danni alle borse. E questo non è piaciuto neanche agli elettori di Trump.

Questa radicalizzazione è un pericolo per il Paese? Rischia di spaccarlo ancora di più?

È un grave pericolo per il Partito democratico, perché se vuole vincere le prossime elezioni deve conquistare gli elettori al centro: per battere Trump quelli di sinistra non bastano. Senza l’elettorato centrista magari si vince a New York, Washington DC, Chicago, Los Angeles, tutte città dove ha prevalso con percentuali bulgare anche Kamala Harris, che era un candidato molto debole. Per quanto riguarda il Paese, la radicalizzazione dei trumpiani era stata più o meno metabolizzata, producendo degli anticorpi grazie ai giudici (a parte l’ultima decisione della Corte Suprema) e a livello parlamentare, dove si è formato un gruppo di repubblicani che in qualche modo frenano Trump. Se alla radicalizzazione repubblicana si contrappone una forte radicalizzazione democratica, ci saranno dei problemi, soprattutto per i democratici.

Per quanto riguarda la politica estera, la strategia di Trump appare un po’ più stabile?

È stata molto oscillante anche nella vicenda della guerra all’Iran. Ha fatto bombardare i siti nucleari, ma anche qui non c’è una linea chiarissima. Quello che ha veramente ottenuto sull’Iran non lo sappiamo: i suoi stessi servizi segreti gli dicono che l’uranio arricchito c’è ancora. Ripeto: Trump non deve sottovalutare gli effetti che questo potrebbe avere sull’economia. Se si va in America, in una cittadina di provincia, si vedrà che il giornale locale dedica mezza paginetta alla politica estera. Ma poi questa ha ripercussioni sulla politica interna e sull’economia americana che vede anche una massaia.

(Paolo Rossetti)

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