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Home » Scienze » EVOLUZIONE/ Quando i mutanti non sono neutrali…

  • Scienze

EVOLUZIONE/ Quando i mutanti non sono neutrali…

Carlo Soave
Pubblicato 14 Gennaio 2010
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Bisogna essere molto cauti, spiega CARLO SOAVE, nel proporre interpretazioni delle dinamiche evolutive senza conoscere approfonditamente i processi genetico molecolari avvenuti nella storia evolutiva delle specie biologiche

La variazione dell’informazione ereditaria è il motore dell’evoluzione biologica: senza variazione non ci può essere evoluzione. Una delle fonti di variazione sono le mutazioni a carico del DNA. Ma qual è la frequenza di queste mutazioni e che rapporto c’è tra le mutazioni e la capacità dell’organismo vivente di modificarsi (cambiando quindi il fenotipo, cioè l’insieme dei suoi caratteri visibili) per meglio adattarsi alle mutevoli condizioni ambientali?


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La teoria evolutiva classica sostiene che l’adattamento è un processo graduale, che risulta dalla costante selezione di tante mutazioni ciascuna con piccoli effetti. Tuttavia la storia evolutiva di molte specie documenta l’alternanza di periodi di rapida evoluzione dei fenotipi seguita da periodi di stasi e le cause di questa variabile velocità di adattamento non sono chiare. D’altra parte nel genoma (cioè nell’intero set di DNA) di ogni individuo possono esistere tre categorie di mutazione: mutazioni “neutre”, cioè senza effetti sul fenotipo, mutazioni “benefiche” e mutazioni “deleterie”: le prime, se il tasso di mutazione è costante, dovrebbero accumularsi a una velocità costante nel corso dell’evoluzione; mentre le altre, cioè quelle benefiche o deleterie, saranno soggette alla selezione e quindi si accumuleranno a velocità variabile dipendente dai cambiamenti ambientali.


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Ma come è possibile stimare la frequenza di mutazioni neutre, benefiche o deleterie lungo tutta l’evoluzione di una specie dal lontano passato fino ad oggi? Il problema è stato affrontato dal gruppo di Richard Lensky (Michigan State University, Usa) e i risultati sono stati pubblicati nel numero nel volume 461 (pag 1243) della rivista Nature. L’idea sperimentale è stata la seguente: un ceppo del batterio Escherichia coli (un batterio molto comune e molto utilizzato nella ricerca) è stato moltiplicato per 40.000 generazioni e, ad intervalli, è stata misurata la “fitness”, cioè la capacità di adattamento, delle progenie rispetto a quella del ceppo parentale ed è stata confrontata la sequenza dell’intero genoma della progenie con la sequenza del ceppo parentale. I risultati hanno mostrato che il numero di mutazioni accumulate nei genomi delle progenie è aumentato linearmente per 20.000 generazioni: questo dato è in linea con quanto previsto dall’ipotesi neutralista e cioè che le mutazioni senza effetti evidenti si accumulino a passo costante (è l’ipotesi proposta dal giapponese Kimura circa quarant’anni fa, in alternativa al darwinismo classico).


"L'Africa si dividerà in due"/ Studio: "La placca somala si staccherà e si creerà un nuovo oceano"


 

I dati sperimentali sono invece in totale disaccordo con l’andamento della fitness, che risulta fortemente non lineare. Mutazioni neutre infatti non dovrebbero modificare la fitness, mentre essa è drasticamente aumentata nel corso delle prime 2.000-3.000 generazioni per poi lentamente decelerare, indicando che le mutazioni occorse in quell’intervallo non erano per nulla neutre. A partire dalla ventimillesima generazione, il tasso di mutazione è drasticamente aumentato a seguito di una mutazione a carico di un particolare gene (mutT) responsabile di mantenere, allo stato normale, un basso numero di errori nella replicazione del Dna. Le mutazioni intervenute erano per la gran parte neutre e infatti la “fitness” non si è modificata apprezzabilmente.


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In sintesi, i risultati del gruppo di Lenski dimostrano due fatti. Il primo è che la relazione tra l’evoluzione del genoma (il numero di mutazioni che si accumulano nel corso delle generazioni) e l’evoluzione dell’adattamento non è per nulla lineare, ma è piuttosto un processo fluido e complesso. La seconda conclusione ci dice che il tasso di mutazione è variabile e di conseguenza è anche variabile la velocità di evoluzione del genoma nel corso delle generazioni. Insomma, l’orologio molecolare, che dipende proprio dal ritmo evolutivo del genoma, non è così preciso e non scandisce con regolarità i tempi dell’evoluzione, che quindi restano di difficile misura.


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La conclusione è che bisogna essere molto cauti nel proporre interpretazioni delle dinamiche evolutive senza conoscere approfonditamente i processi genetico molecolari avvenuti nella storia evolutiva delle specie biologiche.

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